25/01/17

il problema

- Avvertenza -

questo pezzo contiene un flusso di coscienza un po' criptico. Costituisce parte delle note collaterali stese dall'autore nel processo di elaborazione di una teoria. La riporto qui, a titolo di esemplificazione di una crepa fondativa nel processo di scrittura. Una trattazione più teoreticamente coerente degli stessi punti (corredata di bibliografia) prima o poi la scrivo.

-Fine avvertenza-



Il problema, carissimi, è l'inconscio.
Lo è sempre stato, in realtà, ma mai come ora.

Figurarsi che io me ne sono reso conto studiando metafore.
Ero lì con i miei libri, tonnellate di carta coperta di sgorbietti alfabetici, e mettevo simboli in fila, facevo grafici...
Che cosa vorrà mai dire, "letteralmente"? Come si organizza uno scarto, ed esattamente in che modo lo si distingue dal movimento con il quale è sempre mappato, diagrammato, ricondotto al suo slittamento? Esiste questo slittamento, senza il riferimento ad una semantica che...

Stavo per rimanerci, giuro.
La questione aveva smesso di essere un buon problema accademico (che era il modo in cui avrei inteso presentarla furbescamente), ma aveva anche smesso di essere un grimaldello, (quello con cui avrei voluto portare un po' di caos nella tessitura tematica e problematica delle discipline filosofiche).
La questione mi assediava. Mi stringeva da vicino.

Come un punto cieco nel campo visivo che esplodesse in una macchia, e poi nel buio più completo.
Nulla avrebbe potuto eluderla. Allo stesso tempo, ogni progresso mi sembrava sempre più fondamentale, capace di risuonare da un livello all'altro.

"Attento", mi diceva il vecchio Lech, sdraiato sul divano.
"Attento, non chiuderti in cantina con quel mangianastri. Non si sa cosa potrebbe venirne".
Implacabile, continuavo i miei esperimenti. Non avrei saputo che altro fare. Mettere a tacere la scimmietta del dubbio paranoide e dell'autosabotaggio, rimuovere gli accelerometri (niente accelerometri per lucy, come diceva il vecchio Will).

Certo che è una trappola. Il concetto di Hybris ha un parallelo in ogni tradizione conosciuta. Mai che finisca bene.
La cognizione di un paradosso è pericolosa. Per questo esso è sempre scoperto (e la sua scoperta ha funzione salvifica, di rinascita, ri-simbolizzazione) e mai abitato. Non si può vivere nel paradosso. Chi ci prova si consegna ad una morte vivente, ad una vita ossificata.

"Ti sembra il tempo dei guru?" diceva Lech.
Certo, il problema del mito era sul tavolo. Povero ingenuo: ammantato della consapevolezza moderna e illuminista, della mia cognizione multiforme e di numerosi tomi, non immaginavo potesse di colpo mordermi.
E invece.

Sai a cosa serve un rituale? Io lo so.
Ad agire una conoscenza che non si possiede.
Ripugnante, dal punto di vista di un enciclopedista. ma chi legge le enciclopedie? Ironicamente, esse si trasformano istantaneamente in altari colorati che occupano librerie.

E alla fine eccomi. Di fronte alla cosa. Daccapo. E non so come uscirne. Però ormai sono arrivato al fondo.
Il problema è l'inconscio. Lo è sempre stato. Cosa fare dell'inconscio?
La questione è urgente. Non si immagina quanto.

(Le questioni filosofiche contengono un solo rischio, in generale, quello del rovesciamento. Decidere che cosa fare dell'inconscio, prima che esso decida cosa fare di noi. Tic. Tac.)

23/01/17

Olè

Io non lo capivo. Non riuscivo proprio a capirlo.
C'è un piccolo spagnolo imbrillantinato, vestito con eleganza barocca, eccessiva, piena di fioriture dorate.
Dall'altra parte, il Toro: un bestione di seicento chili, nero come il carbone, la personificazione della rabbia.
Dovrebbe essere ovvio, no? Il piccolo spagnolo è morto. Non ha scampo.
E invece no.

(Presta bene attenzione, ora. Se riesci a capire questo, ne trarrai molto giovamento).
Lasciamo da parte il discorso se sia giusto o ingiusto, leale o sleale ammazzare un toro che non ha deliberato né scelto il duello. So che alcuni di voi provano disgusto, ma non è questo che mi interessa.
Consideriamo la cosa analiticamente, con in mente solo un interrogativo, ovvio. Quello intorno al quale l'intera tauromachia è costruita, e che in fondo costituisce il motivo per cui si cominciò e si continua a celebrarla (fino a quando altri motivi e ragioni non ne determineranno la fine)

L'interrogativo è semplice: perché il torero è ancora vivo? Ha una spada, certo. Ma il toro è un gigante, una forza della natura.
(Per dire, la prima volta che ho visto da vicino una mucca - una mucca, perdio! - mi sono spaventato)
La risposta, per quanto incredibile, è nella grammatica.

Il toro, ogni toro che abbia mai combattuto, combatte per la prima volta. Ogni toro è un principiante assoluto. Questo è fondamentale.
Un toro che per fortuna o malasorte sia sopravvissuto al combattimento deve essere abbattuto. Ogni conoscitore della corrida lo sa. Ogni torello che sia stato usato per la pratica non potrà mai combattere.

La corrida è un rituale dell'intelligenza, prima che della violenza o della forza.
Il toro entra con i suoi seicento chili di muscoli, le sue corna acuminate, il suo assoluto sconcerto e terrore. Entra in un luogo sconosciuto, accolto da un clamore oceanico, incomprensibile. Viene subito accolto da un'aggressione immotivata, crudele. Una picca dalla spessa lama triangolare gli si pianta nel collo una, due volte. Il toro reagisce, cerca di allontanare o ferire il cavaliere che lo tormenta. Sanguina. le ferite lo tormentano. Sta per cedere. Ecco che si fanno avanti altri, altre figure danzanti, che lo raggiungono con punture più lievi, ma fastidiose, due a due, uncini che si conficcano nella carne per restarvi appesi. Il toro capisce che non lo lasceranno stare, che è il momento di combattere o morire. Raccoglie le sue forze e si lancia in avanti, ancora e ancora. Ma le gambe cominciano a dolere. La stanchezza si fa sentire. A differenza del cavallo, il toro è veloce, temibile nella carica, ma l'immensa energia necessaria a lanciarsi lo sfianca velocemente.
Il piccolo spagnolo lo provoca con un drappo. Il toro si lancia, e si lancia ancora, indomabile, e ogni volta colpisce solo aria. Lentamente, la testa si abbassa. I muscoli del collo, feriti dalla picca e sanguinanti, cedono. La carica è sempre più corta.
Infine, dal nulla emerge una spada. Il toro nemmeno la vede: esausto, carica ancora. E stavolta una puntura gelida penetra fino alle scapole, spacca il cuore.

Il toro non sa. Non conosce il rituale. Non sa che sarà aggredito, o come. Non immagina.
Il torero, invece, si.
Il torero sa ogni cosa. Conosce l'uso della vara de picar e il senso di ogni puyazo. Sa riconoscere un toro stanco da uno fresco, uno focoso da uno timido. Ha già danzato la danza, e prima ancora l'ha studiata. Sa che il toro per prima cosa girerà in tondo, nell'arena. Sa che abbasserà la testa. Sa come provocarlo. Sa come piantare la stoccata.
Il toro non sa. Il torero invece si.
Il toro è morto. Il torero è vivo.

Ecco, in breve, il segreto. Ma ecco anche un'ammonizione: mai far combattere il toro due volte. Perché il vantaggio dell'intelligenza è sempre fra i più fragili e delicati, e basta un nonnulla a disperderlo.
Se il toro sopravvivesse, come talvolta è successo, e gli fosse permesso rientrare nell'arena, saprebbe bene dove e come colpire. Memore, non lascerebbe che la sua rabbia fosse provocata, coltivata, direzionata e infine usata contro di lui. Non darebbe alcuno spazio all'eleganza di un intelletto assoluto contro la forza bruta.
No.
Il toro caricherebbe dritto, per poi svirgolare all'ultimo momento, a destra o a sinistra. Trafiggerebbe il torero nel bel mezzo della prima veronica. E poi andrebbe avanti, a destra e a sinistra, a sbudellare i poveri cristi accorsi al salvataggio.
In un attimo, ecco il gioco tornare pari: ognuno di fronte all'inaspettato, e di nuovo un piccolo spagnolo, non un semidio, e un toro di seicento chili, non una vittima sacrificale.
Il torero è morto. Il toro è vivo.

Perché abbiamo raccontato tutto ciò?
evidentemente, per farne una metafora.
Pensa a quello che una volta chiamavamo "il popolo". Pensa a tutti noi. E ora pensa alla meravigliosa muleta il technicolor che ogni giorno ci si sventaglia davanti agli occhi.
Quanto velocemente gli eventi si inseguono? Ogni quanto ci troviamo davanti all'inaudito?
Che cos'è una crisi economica?
I colpi di lancia e di arpone si susseguono. Il popolo, bestia instupidita, ha il sangue agli occhi. Carica e carica, convinta di trovarsi di fronte il suo nemico. 
Eccoli! L'isis! Eccoli! I ladri! Eccoli! I clandestini!
Sempre più stanchi, sempre più cinici, sempre più rabbiosi, ci buttiamo in avanti, incapaci di riconoscere il nemico. Quel piccolo spagnolo imbrillantinato che aspetta, con una spada nascosta dietro la schiena.
Quel piccolo spagnolo che, appena vedrà cadere la testa, appena scorgerà i segni ben noti della prostrazione, infilerà ben in fondo la sua spada. Eccolo, che già pregusta.
Lui conosce i tercios: la crisi, il fascismo, la ripresa. Farà comunque dei soldi. Sangue sarà versato, una generazione darà il passo ad un altra, e daccapo. Un nuovo popolo riempirà l'arena, che siano i più giovani o i nuovi arrivati. Farà un bel giro intorno, per capire come se ne esce, e capirà che non si può. Poi, arrivano i primi colpi.

Io non riuscivo a capirlo, proprio non lo capivo.
Da una parte, qualche vecchio bianco pieno di numeri ed equazioni, con in mano una grossa cappa di cavi e schermi, e centinaia di aiutanti a cavallo o a piedi. Dall'altra, l'esercito innumerabile degli sfruttati. In piedi alle sei di mattina o sdraiati dalla depressione. Incazzati. Delusi. Disorientati. Colpiti, e colpiti, e colpiti ancora. Eccoli che si lanciano ma mancano sempre il bersaglio. Sempre più vicini all'inevitabile.
Io non lo capivo. Di certo quei quattro miliardari sono morti, o lo saranno presto.

E invece no. Il teorema del torero li conforta e li guida. Essi conoscono la grammatica! Sanno danzare con la tua frustrazione, dirigerla e spronarla, deluderla e punzecchiarla ancora. E tu balli, volente o nolente, sui loro passi. Loro li conoscono meglio di te.

Il capitale è vivo, il popolo è morto. Dissociato in milioni di individui alienati, dimentichi di ogni coscienza, impegnati ad agire secondo i calcoli altrui (Just do it!).

Eppure, eppure. Basterebbe un po' di memoria, ecco. Nessuna scoperta. Che il gioco è sempre lo stesso, e basta mezz'ora a impararlo, per quanto intercontinentali e complesse siano le veronicas.
E poi non ti fregano, non ti fregano più. Poi si è di nuovo milioni a uno.
E forse allora si vedrà una carica storta, un guizzo di coscienza, una sorpresa terribile. E forse, e forse allora si potrà dire:

Il capitale è morto. Il popolo è vivo.

07/01/17

il Rosso

"Perché sei sempre incazzato?"
Il Rosso è un tipo alto e nervoso, con i capelli rasati e la barba rigogliosa. Non è uno con cui è facile fare amicizia. Ride spesso, ma la sua risata ha un che di forzato, o vagamente aggressivo.
"Non sarebbe meglio essere felici?"
"No."
"Perché no?"
"Non sarebbe giusto"
Il Rosso ci tiene alla giustizia. Ci tiene alla libertà. È anarchico dalla pelle al midollo, dalla cima dei capelli alla punta di piedi. Non è un hippie pacioso, è un anarchico arrabbiato. Ovunque, nella realtà plasticosa e perversa, vede l'ombra del capitale. Ha le ulcere nello stomaco e di certo nel sonno digrigna i denti.
"Perché?"
"Perché la felicità è un privilegio, non un diritto. È un trucco. È la catena. L'unico modo per ottenerla è non guardare più lontano del proprio naso. Contentarsi. Sottomettersi."
Preferirebbe marcire, il Rosso, piuttosto che sottomettersi. Preferirebbe crepare, soffocare, essere divorato piuttosto che cedere. Un uomo d'acciaio e rancore. Fragile. Molto fragile.

Ma la rabbia, la frustrazione, sono bestie potenti. Attenzione a risvegliarle! L'una emerge con gli occhi iniettati di sangue, e fa tremare le ossa con il suo ruggito. Evoca nel mondo un campo di battaglia, reclama sangue. L'altra è subdola, paralizzante. Piega con il suo peso le spalle, irrigidisce i tendini, trasforma la realtà in una gelida prigione, un inferno di ineluttabili sconfitte.
Non è un esaltato, il Rosso. È lucido, anzi, e molto. Non permette a se stesso di ignorare per un attimo la crudeltà degli uomini, le loro colpe.
Non importa se pensi di averla fatta franca. Se non ti interessa, se pensi solo a goderti la vita. Se era il tuo mestiere, se ricevevi ordini, se eri costretto... Al Rosso non interessa.
Nel mondo che dimentica in fretta, nessuno gli leva di dosso il tremendo peso della memoria implacabile. Lui aspetta, soffre e aspetta. Lascia che la rabbia si nutra, lascia il rancore depositarsi strato su strato.
Nel mondo veloce, nel mondo connesso, il Rosso è arcaico come la vendetta, antico come l'oppressione.
Forse un tempo il Rosso pensava alla libertà. Forse voleva essere felice, libero e indipendente. Libero di amare e di essere amato. Libero di ascoltare il suono delle foglie, di vedere il sole sorgere.
Ma non potrebbe accettare, ora, nessuna felicità che non sia condivisa. Non può dimenticare la fratellanza che lo lega ad ogni oppresso, non può evitare di condividerne e il dolore, è proprio per questo si ritrova solo, incapace di tollerare tutti questi sbarbi allegri e inconsapevoli, con il loro desiderio superficiale, con la loro ignoranza complice.
Il Rosso non perdona. Non insegna. Non sopporta i professori e i preti. Non predica. Non convince. Ha solo se stesso, la sua libertà, il suo cervello per muovere guerra al mondo dal quale si rifiuta di evadere.

Ne ha abbastanza di tradimenti, il Rosso, guarda con sospetto chi si dichiara suo compagno, chi gli offre soluzioni. Sa fin troppo bene che le parole sono facili quanto le azioni sono difficili. Sa di essere solo, in tutto ciò che più conta.

Io voglio bene al biondo.
Lo compatisco, perché non si può essere umani e sopportare un peso titanico senza esserne schiacciati.
Lo ammiro, persino.
La sua figura inquieta mi terrorizza e mi rassicura. Vedo in essa il buco che mi attende, l'irrigidimento solipsistico della militanza, e al tempo stesso la forza incrollabile di un'idea, capace di sopravvivere nel vuoto e nutrirsi di carogne, quando tutto ciò che si vede è finto e morto.
Vorrei abbracciarlo, dirgli che va tutto bene. Che ci siamo qua noi, che non è solo. Che questa rivoluzione prima o poi la facciamo, e allora ogni oppresso sarà libero, e ogni colpa perdonata. Ma in fondo non è neppure questo che importa: potremmo fallire, e sarebbe un fallimento condiviso, una sconfitta comune, il seme di nuovi sforzi. Che la specie umana non smetterà mai di conservare, a dispetto di ogni trucco e di ogni follia criminale, il germe della saggezza e della gioia.

Ma probabilmente mi spaccherebbe il naso, se provassi ad abbracciarlo.
E va bene così


"Hai ragione, Rosso, la felicità è per gli stronzi"