08/12/17

Esercizi di Eternità

"The art of progress is to keep intact the Eternal; yet to adopt an advance-guard, perhaps m some cases almost revolutionary, position in respect of such accidents as are subject to the empire of Time." A.C.

Immagina una donna o un uomo, desiderosa di conoscenza, ricca di ingegno, preparata alle avversità, dotata di molti trucchi e molte segrete conoscenze, profonda nella comprensione, determinata di fronte agli ostacoli, incurante del suo proprio valore, consapevole della realtà.

Immagina una trappola mortale, immagina una strada senza uscita, una guerra di cui si sia dimenticata l'origine. Immagina una follia paralizzante, immagina la sensazione del marciapiede contro la guancia, all'alba.

Immagina un gesto di gentilezza spontaneo, immagina una punizione giusta, immagina un insegnamento vero, immagina che ogni istante sia perso per sempre, irripetibile, morto appena dopo la sua comparsa. Immagina una mente completamente quieta, vuota di pensieri, priva di tracce, come un immenso lago immobile.

Immagina un silenzio troppo lungo, un caffé che si raffredda lentamente, il suono di risate registrate in una camera ardente, una lunga fila di denti scheggiati, scoperti per deridere la sconfitta di chi ha osato troppo.

Immagina una ritirata precipitosa, una scusa patetica. Immagina la realizzazione tardiva di una vocazione ormai irrealizzabile. Pronuncia le parole "non ti amo più". Immagina il sapore della carne umana.


17/06/17

Note sulla posizione del filosofo proletario

Avvertenza: in questa riflessione il termine "proletario" è usato per indicare colui che aliena la sua forza lavoro in cambio di un salario. Se il termine ti suscita brividi di disprezzo, lo sbuffo che si riserva ai ragionamenti fuori tempo, o significa molto più di quanto ho detto nella tua mitologia personale, forse sarebbe utile smettere di leggere adesso.
 
Scrivo in questa occasione a beneficio dei molti dottorandi in materie filosofiche (da non restringere indebitamente alla sola filosofia) che ho incontrato nel corso dell'ultimo anno e mezzo fra convegni e summer school, e in generale per gli assegnisti o quelli a contratto. 
Si tratta del tentativo di indagare da una prospettiva di classe la peculiare condizione dell’intellettuale contemporaneo non come deprecabile contingenza, ma come posizione strategica particolarmente sfavorevole dalla quale pensare, e nella quale esistere, e dunque interpretando la questione del come ciò sia ancora possibile.
 
Il dato di partenza, innegabile (anche se sarebbe un forte impulso negarlo) è quello del disorientamento, della confusione. Non uno di voi, di noi, sa bene cosa lo attende. Vi sono speranze e aspirazioni mal combinate, vi sono forti motivi interiori e pessime prospettive lavorative. Come evitare che collidano?

Cari amici, lo so che vi sentite confusi. E' normale. Siete proletari (quasi degli stagionali) che fanno un lavoro tradizionalmente borghese se non addirittura aristocratico, quello delle idee. Va ricordato a tal proposito che:
 
1) Ce lo fanno fare, e ci insegnano a farlo. questo lavoro delle idee, solo da quando è ormai tacitamente deciso che le idee sono obsolete rispetto alle immagini che si muovono, e soprattutto rispetto ai numeri.
 
2) gli effetti della divaricazione che si produce fra l'immagine-di-se aristocratica o quantomeno borghese e la condizione proletaria di vita sono molteplici, e possono plasmare la tua vita. 
 
Fra i più comuni:
 
- Il recupero di nozioni che definiscono la posizione paradossale o rivoluzionaria di un' aristocrazia proletaria (ad es. militanza comunista o subculturale)
 
-La celebrazione liturgica di uno stato di cose passato, e della figura di intellettuali morti che occupavano nella realtà la posizione che noi occupiamo solo nella nostra testa, nell'illusione di poter parlare, quantomeno come chiosatori, dal loro pulpito (che è crollato da tempo)
 
-L'odio per la gente, e la spocchia che ne è il corollario, che ci distanzia almeno emotivamente dai proletari che ci circondano.
 
-L'odio per le classi egemoni che occupano il posto che secondo noi sarebbe degli intellettuali come speciale settore aristocratico o quantomeno borghese, senza venire dal nostro cursus honorum: opinionisti, blogger, maestri di pensiero di varia provenienza. Non si tratta di un odio che si può mettere in campo, dell'animosità fra due avversari che si fronteggiano. E' l'odio degli abitanti di un paesino di passaggio obbligato che si ritrova bypassato da una vasta autostrada ricca di centri commerciali. Una condizione spirituale miserevole che avrei voglia di chiamare "nichilismo logistico".
 
Queste formazioni stanno come sempre fra il sintomo e il palliativo, ma non costituiscono una soluzione o una possibile traiettoria fuori dall'empasse. Sono utili ad inquadrare il problema, nella sua struttura di doppio vincolo stritolante, ma possono solo sottolinearlo. 
Non ci interessa in questa sede l’aspetto della sofferenza psicologica, ma l’impossibilità che sta alla sua base: ovvero la frizione fra un modo di pensare il proprio posto nel mondo estranea all’orizzonte del proletariato e della condizione proletaria. 
Si potrebbe anche dire: la frizione fra il bisogno di pensare il proprio posto nel mondo e la forma di vita del proletariato, la cui caratteristica cardine è l’alienazione, e quindi nasce nel momento in cui il proprio posto nel mondo è accettato perché si possa vivere, e metterlo in discussione significa metterlo a rischio.
 
Il problema centrale a questo riguardo riguarda l'individuo: il soggetto che pensa. Finché saremo convinti che sia il soggetto a pensare, l'individuo sarà chiamato in causa. 
Ma l'individuo non è una categoria del proletariato: il proletario in quanto venditore della propria forza lavoro, si riduce ad essa, come quantità misurabile e intercambiabile. ("Sai quanti ne trovo, per fare il tuo lavoro") Di contro, il filosofo, nella nostra mitologia, appare insostituibile. 
Del filosofo, dopo la sua scomparsa, non resta il mero lavoro, solidificato in generazioni di anonimo sudore - come quello che ha costruito la Salaria, o eretto le piramidi, o riempito le nostre città di macchina. Del filosofo resta il nome, quintessenza del soggetto, associato ad una serie di idee, prese di posizione, ragionamenti e opinioni che ne esprimono la libera attività intellettuale. 
La rinuncia alla libertà, nell’ottica della costruzione di un metodo collettivo, ad esempio, trasforma spesso un filosofo in qualcos’altro. 
 Già Schopenhauer se la rideva delle accademie per questa natura di domesticazione del pensiero, sulla base del fatto che esso ha senso e motivo solo là dove resta libero delle pastoie.
 
La funzione del filosofo sembra dipendere da una certo statuto autonomo e alieno, che gli permette di interrogare l'ordine sociale in quanto tale in forza di una soggettività slegata. Se ne ritrovano i simulacri e gli altarini nel "cogito". Il filosofo è colui che ha la forza di slegarsi da tutti i preconcetti, i pregiudizi e le convenzioni che gli impediscono di considerare un problema da capo e radicalmente. Egli non autorizza alcuna argomentazione in base al prestigio sociale che essa ha accumulato, vuole riprenderla in mano "di persona".
Benché possa sembrare obsoleta, è ancora questa immagine pseudomitica che ossessiona chi, attraverso lo studio dei testi, incontra e gioisce della conoscenza di molte figure simili: Spinoza, Bruno, Marx, Cartesio, Platone...
 
Cosa farà dunque il filosofo proletario? Dovrà rassegnarsi ad incarnare un ossimoro? La soluzione più facile, che potrebbe suggerire qualunque umano non coinvolto dal problema, è quella di abbandonare il campo. La filosofia non è morta già troppe volte? Si direbbe una per ogni filosofo. Ce n’è ancora bisogno? La posizione filosofica non è più compatibile con la realtà, non c’è più cicuta da bere, né pritaneo, solo ufficetti e convegnucci e convegnoni e aperitivi e presentazioni di libri nelle quali ci si svaga, ci si innamora, ci si diverte ma solo rarissimamente si ha la sensazione di fare filosofia (e poi, non sarà solo una sensazione, un’autosuggestione?).
Non commenteremo questo facile disfattismo: diciamo chiaramente che in questo caso non vi inviterò a mettervi in salvo dalla filosofia, né in tono sornione, né in tono serio. Questo è il consiglio che danno gran parte dei professori di una certa generazione, e segna fino a che punto il loro attaccamento a un certo stile o forma di vita aristocratica abbia cancellato ogni traccia della loro lealtà alla filosofia come disciplina, o all'istituzione che li mantiene.
Per quanto ci riguarda, facciamo finta che concordiate con me: che si resta con la filosofia fino alla fine, anche quando i padri vanno uccisi e le mitologie rovesciate, non si rinuncerà a pensare, e a pretendere da se stessi le risorse per continuare a farlo. Ma torniamo al nostro discorso.
 
Il filosofo proletario forse cercherà di sfruttare a suo vantaggio una rinnovata linea pubblico-privato: sarà meno individuo mentre si guadagna da vivere - magari attraverso un programma di ricerca ben pesato e misurato, che lo include come "forza lavoro cognitiva" in un corpo di intellettuali direzionabili, che si fanno dettare i problemi dai bandi europei? - e di contro sempre più individuo, sempre più ostentatamente e cinicamente "contro" nella vita privata, nelle espressioni informali, nel pensiero privato, nella militanza politica? (si noti come in questo senso i filosofi usano la militanza politica come autoterapia, e anche come è il fatto relativamente nuovo che la filosofia sia un “lavoro” a motivare tale divisione pubblico-privato. Gli antichi avrebbero messo la filosofia integralmente nell’otium, l’idea del filosofo stipendiato dallo stato avrebbe avuto presso di loro un che di ridicolo.) 
Oppure il filosofo proletario cercherà di decostruire la sua posizione come soggetto critico, facendosi collettore e connettore di un flusso di codice piuttosto che "testa pensante"? A questa seconda linea appartiene chi in Italia e all'estero (e sono tantissimi, più o meno seriamente) si aggrega spontaneamente in gruppi di ricerca, collettivi e nuclei di pensiero disinteressati. 
 
Non sono nuovi salotti, nuove sfilate, nuove avanguardie, nuove carbonerie. Sono il modo normale in cui i filosofi proletarizzari reagiscono adeguandosi alla propria situazione, facendo funzionare l’unico aspetto che essa offre di efficacia: la prospettiva di un lavoro collettivo. L'unica speranza di trasformare la dura lezione della scomparsa degli intellettuali nella ricomparsa dell'intelletto.
 
Nel deserto della realtà, un romantico potrebbe anche scorgere la soglia di un cambiamento attraverso il quale i filosofi saranno finalmente all'altezza di sviluppare un pensiero che non gli appartiene, dal quale non riscuotono dividendi, ma che scuote dal fondo il torbido intruglio dell'incultura generalizzata e del marketing politico/istituzionale.
 
A patto che non gli salti in testa di fare carriera, ecco. I proletari non fanno mai carriera.

13/06/17

Bioritmi/Demonologia

-Siamo d'accordo. A patto che tu dica "Inconscio" al posto di "Dio".

Taglio corto. Dopotutto, sono ore che discutiamo. Ma il mio interlocutore non mi ascolta: Dio gli parla costantemente attraverso la sua testa.
Probabilmente è uno schizofrenico non diagnosticato. Ma poi qual'è la differenza fra un'idea bislacca e una malattia mentale? Mi dice che i rettiliani controllano la terra attraverso la telepatia e i sacrifici umani. Gli dico che la borghesia invade e capitalizza sulla semiosfera, e penetra l'inconscio collettivo.
Nella notte, annuiamo come se ci fossimo capiti.
Siamo così diversi, in fondo?
Importa qualcosa?


Parliamo intorno a un tavolo sgangherato, i gomiti sul piano in plastica verde sul quale una pozzanghera di birra rovesciata si asciuga diventando sempre meno liquida, sempre più appiccicosa.

Un altro racconta: "una volta, quando ero in galera, uno ha provato a farmisi nella doccia. Ma io avevo una lametta nell'accappatoio, e girandomi gli ho aperto il cazzo in due. Poi mentre cadeva gli ho preso a calci la testa, e gli sono saltato sul petto." Ha una luce negli occhi, mentre lo dice.
Sorride. "Hai paura di me?" Chiede.
Rispondo onestamente: "No".

Non ho paura. Sono triste, ecco. Io con la mia paccottiglia da intellettuale, e le storie, e le dame i cavalier le armi gli amori, e la dialettica materialista, e la costruzione della situazione, e la sovversione generalizzata, e l'estetica post-punk, e il masochismo implicito.
In giro alle tre di notte.
E le vite rigate dalla sventura.


Una ragazza bellissima si avvicina a un ragazzo con i rasta. Lui porta una maglietta aderente, che rileva pettorali aitanti. E' uno silenzioso, se ne sta in circolo con quattro amici e non parla molto.
Lei, scortata da una amica, tenta un approccio. "Come hai questi muscoli? Scali montagne"?
"No, indovina"
"..."
"Gioco a ping pong".
Lei perde interesse immediatamente. Gli amici di lui lo prenderanno in giro per quaranta minuti. Lei è nota, serve al bancone in una pizzeria, e lì dietro è sempre sembrata perfetta e irragiungibile. Lui ora è rosso e suda di imbarazzo, oltre che di caldo.
Lei si piega, a dimostrare l'abilità nel toccarsi i piedi, poi si aggiusta platealmente il reggiseno, mettendo in mostra diversi centimetri quadrati di pelle proibita.
L'amica la porta via quasi di peso.
"Ma era sbronza! L'occasione perfetta!" Commenta uno. "Potevi giocartela meglio."
"Ha una buona amica" commenta uno.
La vediamo andare a casa con un avventore storico del locale, le scarpe in mano.
I ragazzi commentano i suoi piedini, si danno di gomito.
(Esorcismo? Rassicurazione?)
Penso al tempo, al bisogno di sentirsi amati, amabili, alla fame di carne e sangue. Alla necessità di scomparire per essere liberi. All'assenza di potere, al consegnarsi armi e bagagli al nemico dai begli occhi.
Nessuno di questi pensieri è adatto ad affiorare.
 Di che gioco stanno parlando?
Penso al cazzo tagliato in due, alla galera.
La stessa cosa? Un'altra?
Chi vince? Chi è vinto? (Si vince solo per perdersi?)
Cosa importa?
La luce dei lampioni non tramonta.
Non c'è orizzonte oltre le facciate dei palazzi.
(L'alba ci coglierà come uno sporco segreto.)



Non c'è tempo alle quattro di notte per pensare a mezza tinta.
Le questioni si risolvono d'un colpo.
Euforia o depressione.
Il tempo sedimenta e sublima.
L'oscillazione è dolce e profonda, quasi inavvertibile, sulla superficie ingombra di pensieri leggeri.
Come quando nella notte suona l'allarme antincendio, e tutti gli ospiti dell'hotel si ritrovano nella hall in pigiama.
Occhi cisposi, sguardi allarmati, o scocciati, o divertiti.
Così il cervello, rimescolato, produce incroci imprevedibili e umilianti.

Ai margini di una festa da ballo, guardo fisso il groviglio dei corpi, imbarazzati alcuni, impacciati, divertiti. Nello sguardo fisso si liquefaggono, fluiscono gli uni negli altri. Dopo qualche minuto, mi è del tutto impossibile considerarli umani.
"Sarebbe bello avere una personalità tutta intera. Il pensiero odia il corpo, il corpo detesta il pensiero. Il pensiero sogna un buco per uscire dal corpo, il corpo sogna uno sfintere per eiettare il pensiero."
Ma no, ma no. Fate la pace.
La danza è un atto di seduzione verso il proprio corpo, dice Gesù.
Mi muovo a tempo nella musica di un'altra notte, qualunque essa sia.
Tiro scemi i Loa, che si sporgono a guardare.
Eccomi, eccomi. E poi non più.
(Torno corpo fragile, ginocchia dolenti. Torcicollo. Tosse dai bronchi.
Respiro una boccata di fumo, la soffio nell'aria.)
E' tutto qui? E gli altri come fanno?


Non ti fa ridere, l'idea di un filosofo in questo secolo? Di certo fa ridere molti.
La risata è uno sfogo, l'eliminazione sbuffante di una tensione contraddittoria.
L'alternativa alla risata, è il sangue, se la tensione cresce.
(Chi sa far ridere, sa far ringhiare.)
Abitare un paradosso implica essere ridicoli oppure tremendi. Come i matti.
Più pratico abitare quei paradossi mutilati che si chiamano menzogne, e affrontare la verità quando verrà a bussare con l'insistenza di una notifica di sfratto.
"Dai, ancora con la verità? La verità è morta!"

(La sfilata dei matti si snoda lungo le strade. I discorsi sono tutti fuori luogo, e così i corpi. Un'oasi temporanea, psicotica.)
Pace della mente. Mi confesso a una giovane psicologa junghiana appena incontrata. Parlo del me stesso di otto anni.
Non controllo che mi stia ascoltando. Mi basta la calda sensazione di appartenenza lieve, che sempre marciare insieme mi ha dato.

L'idea! Si fotta l'idea!
Le idee dei matti danzano.
Ma i piedi.
I piedi marciano, marciano.
Dovresti avere paura dei piedi, non delle idee.


Di nuovo notte. Adrenalina e odore di botte nell'aria. "Quei quattro hanno rubato lo zaino di Dutch!"
Quando i ragazzi si fronteggiano, petto contro petto, cosa hanno da perdere?
Virilità? Rispetto di se?
I ladri sono sempre dei codardi prepotenti. La loro vanità non è nel dolore, ma nella gratuità.
La questione non è astratta ma rituale.
Si tratta di fargliela pagare.
La danza della scimmia, dritto dal sostrato mammifero.
Nessuno si fa male, alla fine.
Ognuno è soddisfatto quando si sente pericoloso.




(Solo chi non ha alcuna paura può evitare lo scontro.
Ma abbiamo tutti paura.
Dunque cerchiamo lo scontro.)

Come si può sconfiggere la paura? Battendosi.
La metafora è tortuosa, nasconde una trappola.
Paura della paura, lotta contro la lotta. Diffida dei sistemi ricorsivi, che ti condannano a un corpo frattale, all'incorporeo, alla schizofrenia.

Di cosa hai paura? Perché combatti?
Non potrò abbracciarti per sempre, e non intendo diventare uno strumento nella guerra contro te stesso/a.
Cosa ci resta? Non c'è gran che spazio per interazioni a parte questo.

Alle quattro, passo cadenzato e testa alta, vado a casa.
Le strade sono sgombre, l'aria tiepida.
L'alba ci coglie sempre come uno sporco segreto.

29/05/17

incarico statale

Non trovi alcuna risposta se non conosci la domanda.
Se la guerra è contro la realtà nel suo insieme, esistenza implica autodistruzione.
Questa è la radice della schizofrenia.
Che però, secondo qualcuno, potrebbe anche finire per liberare.
E anche allora: che razza di liberazione, quella che separa il cervello dal resto del corpo.

Perché poi combattere la realtà?
All'inizio per paura.
Poi perché l'esaltazione di poterlo fare.
Ci pensi? Combattere la realtà.
Tutta intera.

Che buffo, l'essere umano visto da qui.
Ci si può permettere di provare una certa tenerezza, persino.
Ti incontro per strada e mi sforzo di non muovere i muscoli della faccia
Di non gridare un fragoroso "buon giorno!"
L'unico modo per non spaventarti è fingere di avere anche io paura di te
Oppure è un perverso gioco, in cui a turno ci usiamo false premure?

Non c'è modo, vero?
Certi aggeggi sono ausili allo sviluppo di patologie funzionali
Impara a vivere nel mondo
Impara a non stare bene mai più.
Poi, quando dirai che tutto è a posto
Saprò che hai dimenticato completamente la domanda.

E allora, da capo.

Certi errori sono tanto antichi da non poter essere chiamati errori.
Allora li chiamiamo maledizioni
e li tramandiamo
fino ad espiarli.

02/05/17

Un esempio e alcune considerazioni filosofiche

La cosa bella dell'essere molto gentili con amici ed estranei è che quando qualcuno ti sta sul cazzo basta non fare nulla, e gli altri lo capiscono uguale.

Avrete certo notato che i salamelecchi insinceri sono tipici di quegli ambienti in cui un attacco diretto ha un costo sociale altissimo. In genere, i posti più civili (accademia, salotto alto borghese, gay comunity, circoli del cucito, corte signorile rinascimentale) sono quelli che regolano al rialzo le interazioni comuni, e regolano i contrasti in trasparenza. 
I posti in cui si danno spesso conflitti espliciti (esercito, banda di adolescenti, collettivo politico, luogo di lavoro) sono invece quelli in cui un'amicizia può nascere e svilupparsi in silenzio. Nell'uno e nell'altro ambito il linguaggio ha economia differente: significa "pace e concordia" nel primo caso, "presa di posizione" nel secondo, e ciò a prescindere dal "che cosa" viene detto. Una espressione di lode, in un contesto in cui le lodi rimangono inespresse, conta già come critica. E viceversa.

Ciò genera infiniti fraintendimenti: chi appartiene al primo tipo troverà barbarica l'esplicita litigiosità del secondo, e non vedrà la silenziosa intesa che la sottende. Chi appartiene al secondo, troverà falsa la pletora di complimenti del primo e assente il coraggio del confronto diretto. Tutto ciò per dire che un silenzio sta in rapporto organico con le parole che lo circondano, e a volte obbedisce a logiche affatto eterogenee. I fraintendimenti non sono mai casuali: essi denunciano l'adesione a precisi repertori comunicativi, e sono dunque per se sempre leggibili ad un livello più alto.

Di per se, niente ha significato, se non sullo sfondo di qualcos'altro,  o a partire da un tappeto d'invarianza. La domanda "che cos'è normale" non ha una risposta definitiva, ma non esiste un messaggio interpretabile a prescindere da una risposta qualunque. Ecco perché in assenza di una normalità globale è necessario stabilire piccole normalità locali. A loro volta, il giudizio relativo a tali normalità locali sarà rimandato di un livello, eccetera.
Una posizione pragmatica riguardo al linguaggio suggerirà di interpretare le forme linguistiche come atteggiamenti umani, forme di vita coevolutesi con le situazioni concrete che abitano:
nel nostro caso, il costo sociale del conflitto, o dell'espressione aperta di ammirazione.

In definitiva: il modo in cui parlo dice la verità su di me, più di quanto io pensi. E più parlo, più le linee fondamentali vengono a galla. Una pura banalità, a dire il vero, ma che rivela il fondamentale rovesciamento nel modo in cui parliamo dell'inconscio:
ciò di cui non sono cosciente è più fuori che dentro. Così il mio naso è in piena evidenza, ma solo per il mio interlocutore, così ciò che faccio sempre, la mia norma comportamentale, mi è trasparente quanto è leggibile per altri.


Per questo motivo, non vi è reale empatia - comprensione dei rapporti comunicativi che si instaurano con gli altri - senza la capacità di interpretare la realtà secondo molteplici linee di demarcazione figura-sfondo. Il taglio può essere effettuato in molti modi, e ognuno ha a sua volta senso in relazione alla forma di vita.
Di questa capacità non si può rendere conto compiutamente dentro il linguaggio: tutt'al più si potrebbe farlo in un metalinguaggio sufficientemente complesso. A quello in teoria servirebbe la filosofia.

Chi non fosse in grado di eseguire tale esercizio - o fosse in grado di eseguirlo "entro certi limiti" - porrebbe gli stessi limiti alla propria capacità di comprendere l'altrui prospettiva, e di conseguenza l'altrui forma di vita.

Dichiarare che un linguaggio non ha senso corrisponde a dire, più o meno coscientemente, che la corrispondente forma di vita è incompatibile con la propria e va distrutta.

Non esiste il linguaggio senza vita, e probabilmente viceversa.
L'esistenza di vita non umana implica l'esistenza di linguaggio non umano.
L'esistenza di linguaggio non umano implica l'esistenza di vita non umana.

L'aspirazione della filosofia è trascendere il linguaggio, dunque la vita e l'umano.

05/03/17

Il Kung Fu della discussione

Buonasera amici

Oggi offro una ricetta quasi infallibile, un misto di fallacie logiche e scivolamenti retorici che offre anche ai meno acuti la possibilità di umiliare e soprattutto innervosire gli altri.
Il motivo per cui lo faccio è ovviamente nobile: spero che possiate riconoscere questa tattica in voi stessi e negli altri, ed evitare che essa intrappoli le vostre migliori energie. Una volta che essa sia in azione ciò è inevitabile, sia che vi troviate da un lato o dall'altro della conversazione.
Siamo infatti parlati dal nostro linguaggio, e ogni trappola che vi disponiamo è in primo luogo una trappola nella quale cadiamo. Non vi è ciarlatano che non sia un illuso, non vi è provocatore che non sia un ingenuo, non vi è dittatore che non sia schiavo. Per questo quasi ogni religione conosciuta, e ogni essere umano che abbia vissuto abbastanza a lungo da conoscere la conseguenza dei propri errori, raccomanda di non mentire.

A prescindere da ciò, tuttavia, la strategia che quì descriverò è diversa dal mentire. Essa nasconde una menzogna, o meglio una vaghezza, in strati della discussione ai quali essa stessa rende impossibile accedere, e in ciò sta la sua sottigliezza e la sua perniciosità.
Colui che la padroneggia e la impiega, diviene difficile, quasi impossibile da affrontare in un dibattito o discorso. Ciò può dare l'impressione a chi osserva o ascolta che egli abbia effettivamente "vinto" una discussione. Tale idea, che si possa vincere o perdere una discussione, è di per se risibile, ma pienamente in linea con le perversioni ideologiche della nostra epoca. A chi "vince" viene attribuita la ragione. Egli tuttavia non potrà servirsene per convincere nessuno, o per comunicare realmente alcunché: ha già infatti distrutto la solidarietà necessaria alla comunicazione, e imbrogliato le acque al punto che i concetti introdotti non potranno essere utili ad alcunché di costruttivo. Dunque è una tattica che elude e ingabbia il pensiero, proprio ed altrui, e viene usata adeguatamente e con profitto solo da conservatori e reazionari, o da chi ha profitto che su un certo argomento non si pensi (falsi mistici, truffatori e così via).

Questa tattica fa uso del fatto che gli esseri umani, sotto pressione, ricorrono spesso a schemi binari. Ciò può essere ricondotto al fatto che una scelta per essere rapida va semplificata al massimo, come nel caso di "combattere o fuggire". Ciò si conserva sul piano delle discussioni: spesso ci troviamo in una prima fase di una discussione a stabilire una dualità di posizioni, e poi argomentare a favore dell'una o dell'altra. Raramente, più tardi in una discussione, emerge una terza opzione. Spesso, invece, ciò succede nelle conversazioni più favorevoli e rilassate.
Ciò accade perché in una discussione, quando l'ego è implicato, esso è spesso confuso con l'idea o l'insieme di idee che si difendono (questo è anche alla base dell'illusione di poter "vincere" o "perdere" una discussione. Ci si riesce, appunto, trasformando la discussione da discussione-di a discussione-fra. L'aspetto pragmatico del rapporto di forza fra gli interlocutori oscura quello del senso, e lo impoverisce drammaticamente).

CONTESTO

Osserviamo ora una situazione:
A e B sono impegnati in una discussione. Ciò è accaduto perché alcune parole o azioni di A sono apparse censurabili a B, che dunque formula una critica.
Formulare una critica è in se un atto caritatevole: significa portare sul piano del linguaggio una tensione reale. Ogni critica implica la possibilità di operare una trasformazione a partire dalla sensibilità di A ad argomenti razionali. Ad alcuni, che vi sia una sensibilità degli umani agli argomenti razionali sembra ovvio: certi argomenti non sono "stringenti"? Eppure la razionalità non è un dato, ma un costrutto, e come tale ha soglie di rottura e margini di variazione (come ad esempio, quando variano grandemente i concetti di partenza o la logica impiegata. Su questo non ci dilungheremo).
A non ha voglia, tempo o energie di rispondere alle critiche. Forse perché parte da presupposti non condivisi e indifendibili (ad esempio, è razzista), o perché usa una logica differente (ad esempio, ragiona a partire da una religione rivelata). In ogni caso, A non trarrebbe alcun vantaggio dal discutere la sua posizione: ne rivelerebbe i presupposti o l'irrazionalità.
Piuttosto, sceglie di rovesciare il piano della discussione.
Farlo è semplice.

SITUAZIONE

Immaginiamo che B abbia accusato A di essere fascista. A non deve assolutamente concedere o negare. Facendolo, di fatto stabilirebbe un asse con due posizioni definite: negando sarebbe "A è fascista"/"A non è fascista". Dovrebbe cioè difendere questa posizione con mezzi razionali.
Egli tuttavia non vuole nemmeno tacere: ciò corrisponderebbe ad un'ammissione agli occhi di tutti, e costituirebbe nella sua logica una "sconfitta". Né vuole ammettere e difendere la sua posizione: gli toccherebbe spostare il discorso su "Il fascismo è talvolta accettabile"/"Il fascismo è radicalmente inaccettabile". Nessuno di questi assi gli assicura un vantaggio.

TECNICA

Piuttosto, A guadagna molto dallo scegliere un'altra categoria che B considera negativa o deleteria, e assimilare l'accusa che gli viene rivolta ad essa.
Ad esempio: "Accusare gli altri di fascismo è una mossa tipicamente borghese".
E' molto importante che sia un'accusa non esplicitamente rivolta a B, ma al suo muovere la prima accusa. E' molto importante che sia un'accusa che B non può lasciar passare senza controbattere in base al suo amor proprio. NON IMPORTA che sia un'accusa ridicola o inesatta, quanto che sia qualcosa che B crede, o considera plausibile. NON IMPORTA che A consideri "essere borghese" una cosa negativa, finché lo fa B.
Si verifica così un controargomento ad hominem mascherato. B non è stato direttamente accusato, ma accusato in quanto accusatore. In più, B accusando ha già implicitamente affermato la sua credibilità, e quindi è più vulnerabile alle messe in discussione di questa. Controbattere a questa contro-accusa incastra B nel compito di motivare che "accusare gli altri di fascismo NON è una mossa ESCLUSIVAMENTE borghese".

Il doppio vantaggio è che:

1) La complessità del discorso di B dovrà crescere, infatti si tratta di questione ben più complessa: A può usare questa complessità e la conseguente verbosità di B per dichiarare che B "si sta arrampicando sugli specchi". C'è anche la possibilità che soprattutto se il medium della discussione è telematico o televisivo, una spiegazione lunga o complessa annoi o disturbi il pubblico, che non la segue. (mandare l'avversario oltre la soglia di complessità è una tattica fondamentale del dibattito su internet o televisivo. Per questo gli idioti vincono sempre: loro sono già accordati all'attention span dell'uditorio perché è il loro stesso attention span.)

2) A deve fare leva sul fatto che "accusare gli altri di fascismo è una mossa tipicamente borghese" COME SE FOSSE LA NEGAZIONE dell'affermazione di cui sopra. Siccome non si procede da una definizione di borghesia precisa (è importante che il secondo concetto sia vago, almeno ai fini della conversazione di cui parliamo) il confine è labile e in una conversazione accesa è difficilissimo stabilirlo. Ogni tentativo di definizione più precisa verrà definito da B "svicolare" o "cavillare". Ogni definizione più precisa verrà in ogni caso respinta.

RISULTATO

Il risultato è che se prima B accusava A, ora B si sta difendendo da un'accusa che A non ha formulato, ma solo suggerito indirettamente.
A può rinforzare la sua posizione dicendo ad esempio che "non c'è niente di male ad essere borghesi, basta riconoscerlo". Rendendo così manifesta che si tratta da parte di B di excusatio non petita.
Aggiungendo magari che "un fascista questo non lo direbbe mai" si difende dalla prima accusa senza aver dovuto argomentare alcunché.
La sua posizione di forza gli offre molteplici possibilità di imbrogliare le carte.
B in effetti, dal dibattere con A, sta di fatto lottando con l'impossibilità di salvare capra e cavoli, ovvero è indeciso fra accusare e difendersi. Lasciar andare i fascisti per non essere borghesi? Attaccare i fascisti al costo di essere borghesi? Se B arriva a chiederselo, non riuscirà a fare nessuna delle due cose efficacemente. Se cerca di negare l'alternativa, perde di vista l'argomento, egli a questo punto critica una correlazione fra una critica e una determinata posizione e il pubblico, com'è naturale, non capisce più né il come né il perché.

CONCLUSIONE

La migliore strategia per A a questo punto è fingere di essere dalla parte del "confuso" B, evitare in ogni modo di attaccarlo direttamente, facendo mostra plateale di un atteggiamento condiscendente (cosa che può farlo arrabbiare, con esiti ancora più favorevoli, oppure suscitare da parte sua una correlativa dolcezza, che contraddice la sua accusa originaria). La cosa migliore da fare, è tirare in ballo a questo punto affetto e amicizia, offrire un ramo d'ulivo. Con qualche fortuna, B avrà temporaneamente scordato di essere lui ad accusare. L'accusa viene istantaneamente prescritta. Vittoria.

ANALISI

Insomma: A deve usare qualcosa che B crede (spesso i democratici borghesi accusano gli altri di fascismo a sproposito) contro di lui. Una metonimia inosservata rende simmetrica una relazione asimmetrica: la proposizione di cui sopra va usata dunque come "accusare gli altri di fascismo = essere borghesi". Chiarire questo equivoco, anche se B lo coglie, richiede una certa elaborazione logica, che come abbiamo detto diventa impossibile data l'economia binaria che la discussione, vieppiù accesa, impone.
A questo scopo, si raccomanda che A incalzi, non lasci tempo, faccia passare ogni elaborazione ulteriore come inutile sofisma, dichiarando invece di "parlare chiaro".

ESEMPI

Questa tattica è stata usata con profitto dalla destra italiana berlusconiana, dalla sinistra renziana, etc.
Alcune delle leve usate (in forma brutalmente schematica. Una volta appreso il trucco se ne potrà riconoscere il funzionamento a ripetizione).

B: Difendete il profitto a discapito delle persone (lavoro, welfare, etc...) A:  Disprezzare il profitto è tipicamente comunista. (tanto più acuta, da parte dei berlusconiani, in quanto il comunismo era punto debole di una sinistra disunita. Ogni risposta possibile degli avversari ne spacca il fronte)

B: State affossando la credibilità del partito/ preparando la strada alla destra etc... A: fare previsioni catastrofiche è da gufi e rosiconi sfigati

Di recente, i più brillanti interpreti di questa tattica sono stati:

Milo Yiannopoulos negli USA
es: Milo dice cosa razzista, folla lo contesta, Milo: contestare e non permettere la parola è fascista. (notare che Milo non esprime un parere sul fascismo. ciò che conta è che questo sia considerato brutto da chi lo contesta, o dai possibili supporter dei contestatori)

Diego Fusaro in italia.
Es: Chi propaganda la teoria gender è filocapitalista. (notare che qui la cosa è più subdola: fa perno sul sillogismo fallace: "il capitalismo distrugge la società" "la teoria gender distrugge la società" ergo "la teoria gender è filocapitalista". Ad essere errati sono SIA il sillogismo in se, che non funziona, sia la seconda premessa. Difficilissimo è affrontarli entrambi insieme).

CasaPound in italia.
Es: CP dice cosa fascista, viene accusata di fascismo, CP: chi non permette l'espressione delle idee è fascista.

Eccetera. Eccetera. Eccetera.

NOTE CONCLUSIVE

Chi utilizza questa tattica spesso o rozzamente si scredita, e spesso finisce per screditarsi anche chi la usa raramente e in maniera abile.
Essa tuttavia è facile da usare e permette a un interlocutore meno abile di sopraffare uno più abile: è anzi più facile che un interlocutore intelligente e razionale cada nella trappola più facilmente di uno meno valido. Infatti quest'ultimo tenderà a fidarsi dei propri mezzi, e rispondere in maniera esaustiva e complessa - e dunque fallimentare! - alla sollecitazione, e tenderà a difendersi dall'accusa implicita - che egli non può non vedere - e a difendere la sua coerenza, specialmente se rappresenta per lui un valore.
Dunque è utile per permettere a una torma di persona poco valide - che in fondo non temono di screditarsi con il pubblico intelligente, finché tengono buono quello meno intelligente e più numeroso, e ottengono meriti con un capo - di contrastare efficacemente anche una intellighenzia preparata, finché essa tenta di essere esaustiva, coerente, autorevole e in buona fede.

Sono trucchi del genere, a parere di chi scrive, a rendere quasi irrilevante ai fini della persuasività l'intelligenza e la preparazione di chi parla, ad esempio, in TV.

Il modo di contrastare tali trucchi, molto semplice e molto difficile, tanto quanto la trappola è facile e complessa, è parlare sempre con chi ascolta.
Un trucco del genere che abbiamo descritto, indica la malafede: occorre riconoscerlo e non continuare a sperare nella possibilità di un dialogo, dal momento che esso non può avvenire se non fra interlocutori collaborativi. Dunque, laddove ciò avvenga, continuare a parlare SOLO con il pubblico, se c'è, spiegando le motivazioni della prima critica senza lasciarsi distrarre. E' nella natura del trucco che non funziona se non ci si casca. Non cascateci. Mai. Formulate accuse razionali e mostratene la razionalità. Più un'accusa è vaga, meglio può essere piegata. Più è complessa, meglio può essere fraintesa. Siate conseguenti e sintetici. Rimanete sulla prima accusa, non scivolate sulla seconda.
Nonostante tutto, non interrompete il dibattito. Soprattutto, non terminate mandando affanculo l'avversario. Lo merita, ma se lo fate ha vinto. Continuate a dimostrare il punto ancora e ancora fino a quando diventa nervoso. Fategli sentire che la razionalità umana non è un vostro diletto narcisistico ma una conquista collettiva che non si può disprezzare. Impeditegli di prendere in giro un auditorio e dimenticate l'ego. Non rispondete alle provocazioni ma non datela MAI vinta. E non cercate MAI di vincere. A un certo punto il vostro interlocutore vi offrirà la vittoria, o delle lusinghe ("certo, questo discorsone supera in molto la mia intelligenza...") in questo caso, non accettate di "avere vinto". Rispiegate tutto da capo, invece.
Questo è l'unico modo di procedere dignitoso, ma l'ho visto succedere al massimo due volte.

25/01/17

il problema

- Avvertenza -

questo pezzo contiene un flusso di coscienza un po' criptico. Costituisce parte delle note collaterali stese dall'autore nel processo di elaborazione di una teoria. La riporto qui, a titolo di esemplificazione di una crepa fondativa nel processo di scrittura. Una trattazione più teoreticamente coerente degli stessi punti (corredata di bibliografia) prima o poi la scrivo.

-Fine avvertenza-



Il problema, carissimi, è l'inconscio.
Lo è sempre stato, in realtà, ma mai come ora.

Figurarsi che io me ne sono reso conto studiando metafore.
Ero lì con i miei libri, tonnellate di carta coperta di sgorbietti alfabetici, e mettevo simboli in fila, facevo grafici...
Che cosa vorrà mai dire, "letteralmente"? Come si organizza uno scarto, ed esattamente in che modo lo si distingue dal movimento con il quale è sempre mappato, diagrammato, ricondotto al suo slittamento? Esiste questo slittamento, senza il riferimento ad una semantica che...

Stavo per rimanerci, giuro.
La questione aveva smesso di essere un buon problema accademico (che era il modo in cui avrei inteso presentarla furbescamente), ma aveva anche smesso di essere un grimaldello, (quello con cui avrei voluto portare un po' di caos nella tessitura tematica e problematica delle discipline filosofiche).
La questione mi assediava. Mi stringeva da vicino.

Come un punto cieco nel campo visivo che esplodesse in una macchia, e poi nel buio più completo.
Nulla avrebbe potuto eluderla. Allo stesso tempo, ogni progresso mi sembrava sempre più fondamentale, capace di risuonare da un livello all'altro.

"Attento", mi diceva il vecchio Lech, sdraiato sul divano.
"Attento, non chiuderti in cantina con quel mangianastri. Non si sa cosa potrebbe venirne".
Implacabile, continuavo i miei esperimenti. Non avrei saputo che altro fare. Mettere a tacere la scimmietta del dubbio paranoide e dell'autosabotaggio, rimuovere gli accelerometri (niente accelerometri per lucy, come diceva il vecchio Will).

Certo che è una trappola. Il concetto di Hybris ha un parallelo in ogni tradizione conosciuta. Mai che finisca bene.
La cognizione di un paradosso è pericolosa. Per questo esso è sempre scoperto (e la sua scoperta ha funzione salvifica, di rinascita, ri-simbolizzazione) e mai abitato. Non si può vivere nel paradosso. Chi ci prova si consegna ad una morte vivente, ad una vita ossificata.

"Ti sembra il tempo dei guru?" diceva Lech.
Certo, il problema del mito era sul tavolo. Povero ingenuo: ammantato della consapevolezza moderna e illuminista, della mia cognizione multiforme e di numerosi tomi, non immaginavo potesse di colpo mordermi.
E invece.

Sai a cosa serve un rituale? Io lo so.
Ad agire una conoscenza che non si possiede.
Ripugnante, dal punto di vista di un enciclopedista. ma chi legge le enciclopedie? Ironicamente, esse si trasformano istantaneamente in altari colorati che occupano librerie.

E alla fine eccomi. Di fronte alla cosa. Daccapo. E non so come uscirne. Però ormai sono arrivato al fondo.
Il problema è l'inconscio. Lo è sempre stato. Cosa fare dell'inconscio?
La questione è urgente. Non si immagina quanto.

(Le questioni filosofiche contengono un solo rischio, in generale, quello del rovesciamento. Decidere che cosa fare dell'inconscio, prima che esso decida cosa fare di noi. Tic. Tac.)

23/01/17

Olè

Io non lo capivo. Non riuscivo proprio a capirlo.
C'è un piccolo spagnolo imbrillantinato, vestito con eleganza barocca, eccessiva, piena di fioriture dorate.
Dall'altra parte, il Toro: un bestione di seicento chili, nero come il carbone, la personificazione della rabbia.
Dovrebbe essere ovvio, no? Il piccolo spagnolo è morto. Non ha scampo.
E invece no.

(Presta bene attenzione, ora. Se riesci a capire questo, ne trarrai molto giovamento).
Lasciamo da parte il discorso se sia giusto o ingiusto, leale o sleale ammazzare un toro che non ha deliberato né scelto il duello. So che alcuni di voi provano disgusto, ma non è questo che mi interessa.
Consideriamo la cosa analiticamente, con in mente solo un interrogativo, ovvio. Quello intorno al quale l'intera tauromachia è costruita, e che in fondo costituisce il motivo per cui si cominciò e si continua a celebrarla (fino a quando altri motivi e ragioni non ne determineranno la fine)

L'interrogativo è semplice: perché il torero è ancora vivo? Ha una spada, certo. Ma il toro è un gigante, una forza della natura.
(Per dire, la prima volta che ho visto da vicino una mucca - una mucca, perdio! - mi sono spaventato)
La risposta, per quanto incredibile, è nella grammatica.

Il toro, ogni toro che abbia mai combattuto, combatte per la prima volta. Ogni toro è un principiante assoluto. Questo è fondamentale.
Un toro che per fortuna o malasorte sia sopravvissuto al combattimento deve essere abbattuto. Ogni conoscitore della corrida lo sa. Ogni torello che sia stato usato per la pratica non potrà mai combattere.

La corrida è un rituale dell'intelligenza, prima che della violenza o della forza.
Il toro entra con i suoi seicento chili di muscoli, le sue corna acuminate, il suo assoluto sconcerto e terrore. Entra in un luogo sconosciuto, accolto da un clamore oceanico, incomprensibile. Viene subito accolto da un'aggressione immotivata, crudele. Una picca dalla spessa lama triangolare gli si pianta nel collo una, due volte. Il toro reagisce, cerca di allontanare o ferire il cavaliere che lo tormenta. Sanguina. le ferite lo tormentano. Sta per cedere. Ecco che si fanno avanti altri, altre figure danzanti, che lo raggiungono con punture più lievi, ma fastidiose, due a due, uncini che si conficcano nella carne per restarvi appesi. Il toro capisce che non lo lasceranno stare, che è il momento di combattere o morire. Raccoglie le sue forze e si lancia in avanti, ancora e ancora. Ma le gambe cominciano a dolere. La stanchezza si fa sentire. A differenza del cavallo, il toro è veloce, temibile nella carica, ma l'immensa energia necessaria a lanciarsi lo sfianca velocemente.
Il piccolo spagnolo lo provoca con un drappo. Il toro si lancia, e si lancia ancora, indomabile, e ogni volta colpisce solo aria. Lentamente, la testa si abbassa. I muscoli del collo, feriti dalla picca e sanguinanti, cedono. La carica è sempre più corta.
Infine, dal nulla emerge una spada. Il toro nemmeno la vede: esausto, carica ancora. E stavolta una puntura gelida penetra fino alle scapole, spacca il cuore.

Il toro non sa. Non conosce il rituale. Non sa che sarà aggredito, o come. Non immagina.
Il torero, invece, si.
Il torero sa ogni cosa. Conosce l'uso della vara de picar e il senso di ogni puyazo. Sa riconoscere un toro stanco da uno fresco, uno focoso da uno timido. Ha già danzato la danza, e prima ancora l'ha studiata. Sa che il toro per prima cosa girerà in tondo, nell'arena. Sa che abbasserà la testa. Sa come provocarlo. Sa come piantare la stoccata.
Il toro non sa. Il torero invece si.
Il toro è morto. Il torero è vivo.

Ecco, in breve, il segreto. Ma ecco anche un'ammonizione: mai far combattere il toro due volte. Perché il vantaggio dell'intelligenza è sempre fra i più fragili e delicati, e basta un nonnulla a disperderlo.
Se il toro sopravvivesse, come talvolta è successo, e gli fosse permesso rientrare nell'arena, saprebbe bene dove e come colpire. Memore, non lascerebbe che la sua rabbia fosse provocata, coltivata, direzionata e infine usata contro di lui. Non darebbe alcuno spazio all'eleganza di un intelletto assoluto contro la forza bruta.
No.
Il toro caricherebbe dritto, per poi svirgolare all'ultimo momento, a destra o a sinistra. Trafiggerebbe il torero nel bel mezzo della prima veronica. E poi andrebbe avanti, a destra e a sinistra, a sbudellare i poveri cristi accorsi al salvataggio.
In un attimo, ecco il gioco tornare pari: ognuno di fronte all'inaspettato, e di nuovo un piccolo spagnolo, non un semidio, e un toro di seicento chili, non una vittima sacrificale.
Il torero è morto. Il toro è vivo.

Perché abbiamo raccontato tutto ciò?
evidentemente, per farne una metafora.
Pensa a quello che una volta chiamavamo "il popolo". Pensa a tutti noi. E ora pensa alla meravigliosa muleta il technicolor che ogni giorno ci si sventaglia davanti agli occhi.
Quanto velocemente gli eventi si inseguono? Ogni quanto ci troviamo davanti all'inaudito?
Che cos'è una crisi economica?
I colpi di lancia e di arpone si susseguono. Il popolo, bestia instupidita, ha il sangue agli occhi. Carica e carica, convinta di trovarsi di fronte il suo nemico. 
Eccoli! L'isis! Eccoli! I ladri! Eccoli! I clandestini!
Sempre più stanchi, sempre più cinici, sempre più rabbiosi, ci buttiamo in avanti, incapaci di riconoscere il nemico. Quel piccolo spagnolo imbrillantinato che aspetta, con una spada nascosta dietro la schiena.
Quel piccolo spagnolo che, appena vedrà cadere la testa, appena scorgerà i segni ben noti della prostrazione, infilerà ben in fondo la sua spada. Eccolo, che già pregusta.
Lui conosce i tercios: la crisi, il fascismo, la ripresa. Farà comunque dei soldi. Sangue sarà versato, una generazione darà il passo ad un altra, e daccapo. Un nuovo popolo riempirà l'arena, che siano i più giovani o i nuovi arrivati. Farà un bel giro intorno, per capire come se ne esce, e capirà che non si può. Poi, arrivano i primi colpi.

Io non riuscivo a capirlo, proprio non lo capivo.
Da una parte, qualche vecchio bianco pieno di numeri ed equazioni, con in mano una grossa cappa di cavi e schermi, e centinaia di aiutanti a cavallo o a piedi. Dall'altra, l'esercito innumerabile degli sfruttati. In piedi alle sei di mattina o sdraiati dalla depressione. Incazzati. Delusi. Disorientati. Colpiti, e colpiti, e colpiti ancora. Eccoli che si lanciano ma mancano sempre il bersaglio. Sempre più vicini all'inevitabile.
Io non lo capivo. Di certo quei quattro miliardari sono morti, o lo saranno presto.

E invece no. Il teorema del torero li conforta e li guida. Essi conoscono la grammatica! Sanno danzare con la tua frustrazione, dirigerla e spronarla, deluderla e punzecchiarla ancora. E tu balli, volente o nolente, sui loro passi. Loro li conoscono meglio di te.

Il capitale è vivo, il popolo è morto. Dissociato in milioni di individui alienati, dimentichi di ogni coscienza, impegnati ad agire secondo i calcoli altrui (Just do it!).

Eppure, eppure. Basterebbe un po' di memoria, ecco. Nessuna scoperta. Che il gioco è sempre lo stesso, e basta mezz'ora a impararlo, per quanto intercontinentali e complesse siano le veronicas.
E poi non ti fregano, non ti fregano più. Poi si è di nuovo milioni a uno.
E forse allora si vedrà una carica storta, un guizzo di coscienza, una sorpresa terribile. E forse, e forse allora si potrà dire:

Il capitale è morto. Il popolo è vivo.

07/01/17

il Rosso

"Perché sei sempre incazzato?"
Il Rosso è un tipo alto e nervoso, con i capelli rasati e la barba rigogliosa. Non è uno con cui è facile fare amicizia. Ride spesso, ma la sua risata ha un che di forzato, o vagamente aggressivo.
"Non sarebbe meglio essere felici?"
"No."
"Perché no?"
"Non sarebbe giusto"
Il Rosso ci tiene alla giustizia. Ci tiene alla libertà. È anarchico dalla pelle al midollo, dalla cima dei capelli alla punta di piedi. Non è un hippie pacioso, è un anarchico arrabbiato. Ovunque, nella realtà plasticosa e perversa, vede l'ombra del capitale. Ha le ulcere nello stomaco e di certo nel sonno digrigna i denti.
"Perché?"
"Perché la felicità è un privilegio, non un diritto. È un trucco. È la catena. L'unico modo per ottenerla è non guardare più lontano del proprio naso. Contentarsi. Sottomettersi."
Preferirebbe marcire, il Rosso, piuttosto che sottomettersi. Preferirebbe crepare, soffocare, essere divorato piuttosto che cedere. Un uomo d'acciaio e rancore. Fragile. Molto fragile.

Ma la rabbia, la frustrazione, sono bestie potenti. Attenzione a risvegliarle! L'una emerge con gli occhi iniettati di sangue, e fa tremare le ossa con il suo ruggito. Evoca nel mondo un campo di battaglia, reclama sangue. L'altra è subdola, paralizzante. Piega con il suo peso le spalle, irrigidisce i tendini, trasforma la realtà in una gelida prigione, un inferno di ineluttabili sconfitte.
Non è un esaltato, il Rosso. È lucido, anzi, e molto. Non permette a se stesso di ignorare per un attimo la crudeltà degli uomini, le loro colpe.
Non importa se pensi di averla fatta franca. Se non ti interessa, se pensi solo a goderti la vita. Se era il tuo mestiere, se ricevevi ordini, se eri costretto... Al Rosso non interessa.
Nel mondo che dimentica in fretta, nessuno gli leva di dosso il tremendo peso della memoria implacabile. Lui aspetta, soffre e aspetta. Lascia che la rabbia si nutra, lascia il rancore depositarsi strato su strato.
Nel mondo veloce, nel mondo connesso, il Rosso è arcaico come la vendetta, antico come l'oppressione.
Forse un tempo il Rosso pensava alla libertà. Forse voleva essere felice, libero e indipendente. Libero di amare e di essere amato. Libero di ascoltare il suono delle foglie, di vedere il sole sorgere.
Ma non potrebbe accettare, ora, nessuna felicità che non sia condivisa. Non può dimenticare la fratellanza che lo lega ad ogni oppresso, non può evitare di condividerne e il dolore, è proprio per questo si ritrova solo, incapace di tollerare tutti questi sbarbi allegri e inconsapevoli, con il loro desiderio superficiale, con la loro ignoranza complice.
Il Rosso non perdona. Non insegna. Non sopporta i professori e i preti. Non predica. Non convince. Ha solo se stesso, la sua libertà, il suo cervello per muovere guerra al mondo dal quale si rifiuta di evadere.

Ne ha abbastanza di tradimenti, il Rosso, guarda con sospetto chi si dichiara suo compagno, chi gli offre soluzioni. Sa fin troppo bene che le parole sono facili quanto le azioni sono difficili. Sa di essere solo, in tutto ciò che più conta.

Io voglio bene al biondo.
Lo compatisco, perché non si può essere umani e sopportare un peso titanico senza esserne schiacciati.
Lo ammiro, persino.
La sua figura inquieta mi terrorizza e mi rassicura. Vedo in essa il buco che mi attende, l'irrigidimento solipsistico della militanza, e al tempo stesso la forza incrollabile di un'idea, capace di sopravvivere nel vuoto e nutrirsi di carogne, quando tutto ciò che si vede è finto e morto.
Vorrei abbracciarlo, dirgli che va tutto bene. Che ci siamo qua noi, che non è solo. Che questa rivoluzione prima o poi la facciamo, e allora ogni oppresso sarà libero, e ogni colpa perdonata. Ma in fondo non è neppure questo che importa: potremmo fallire, e sarebbe un fallimento condiviso, una sconfitta comune, il seme di nuovi sforzi. Che la specie umana non smetterà mai di conservare, a dispetto di ogni trucco e di ogni follia criminale, il germe della saggezza e della gioia.

Ma probabilmente mi spaccherebbe il naso, se provassi ad abbracciarlo.
E va bene così


"Hai ragione, Rosso, la felicità è per gli stronzi"