02/10/16

Old Louis


Louis chiuso in cantina con mezz'etto di mariuana albanese, un mangianastri e svariati altri oggetti, prosegue i suoi esperimenti sulla distorsione temporale. Oppure è morto? Non sono sicuro di niente ormai.
Una settimana segue l'altra, e l'odore acre di mariuana scadente si mischia con l'aroma dolciastro della putrefazione... che sia morto? Oppure sono rimasto seduto su questo divano troppo a lungo e quelle che sento sono le mie piaghe da decubito.



E' un po' che sto zitto. Non saprei dire quanto.
Prendo sul serio la mia ribellione personale. Qui tutti parlano e nessuno ha un cazzo da dire da anni.
Rimasticano quello che hanno visto in tv da piccoli, piccoli brividi nostalgici.
Io da piccolo non ce l'avevo la TV. Io da piccolo ero comunista e leggevo cocteau.
Adesso che mi drogo, ho smesso di leggere.
Sto sul mio divano, ecco tutto. Fisso il piccolo schermo sgangherato. La successione di cosce, volti resi lisci e opachi dal cerone, risate finte, allegria monotona è la dimensione che abito.

Che cosa rimane? Alla fine, se il modo in cui guardi le cose mi disgusta, farti schifo è l'unico modo che ho per andare pari.
Non dico che riuscirò a rovinarti la giornata, ecco.
Però magari, quando torni dal lavoro tutto nobilitato mi incontri e io ti spalmo sul muso il mio bel sorriso di ascessi...
Magari.
Certo, finché me ne sto sul divano, col cazzo che mi incontri.
Ma non fa niente, non fa niente.
Che io sia dannato se ti regalerò ancora un gesto, una parola. Che io sia dannato per la mia stessa esistenza: una condanna che eseguo per conto mio, senza rompere i coglioni, senza muovere un muscolo.

Poi, d'un colpo, Louis riemerge.
Lacerato e lurido! Enfatico! Scordinato!
Il solito vecchio Louis. Imbattibile e inarrestabile. Pieno di idee.
Io lo odio, Louis.
Mi prende per un braccio e mi tira su urlando: Sveglia compagno! Hai dormito abbastanza!
Louis è interamente esclamativo, l'energia nervosa che lo pervade ha bruciato ogni sostanza molle, ciò che rimane è una composizione di ossa, tendini, pelle scabra e secca. Sfoggia un sorriso ultramondano, che gli spacca la faccia lunga e affilata in due, mette in mostra quello che resta della sua dentatura.
Una visione di grandiosità e miseria, terrore e beatitudine.
La mia riluttanza è ben poca cosa, al confronto. Il mio disgusto è irrilevante.
Mi ritrovo in piedi, e poi in strada, calzando ancora ciabatte e pantaloni di spugna e una vecchia t-shirt sulla quale campeggia il simbolo scolorito del ZACF. Il sole mi ferisce gli occhi. Subisco il gruire scomposto della locomozione meccanizzata umana, il tanfo di dinosauri liquefatti dai millenni che si disfanno in esplosioni serializzate, composte.



E' una bella giornata, vedi? Non c'è tempo da perdere! Questo mondo attende di essere salvato!
Povero Louis, colmo di generosità paradossale e cruenta.
Questo mondo è un ponte, mormoro. Attraversalo, non costruirci sopra.
Scuote la testa con vigore: è così che si scolla di dosso le mie ritrosie.
Guardati! Esclama. Eccoti, marcio e derelitto a piangerti addosso. Cosa ci trovi, nella tua immobilità stolida? Quale consolazione ti porta il tuo macerare? Che riposo può darti la merda in cui ti trascini?
Lo ascolto, e la sua voce viene da altri luoghi.
Scende dall'alto di una incrollabile fede, emerge dalle profondità della dissoluzione ineluttabile.
Louis! Esploratore dell'abisso e orfano di ogni lucidità, proprio a lui doveva toccare questo compito meschino?

No, fratello, dico. Niente di quello che dici mi torna.
Siamo nati morti, in ritardo su un mondo già fallito. Siamo zeri fuori posto in un calcolo che ci sfugge, illusi fin dall'inizio. Lasciami tornare a sedere sul mio divano. Guarderò il muro. Accenderò un piccolo schermo, e sorrisi stentorei mi anestetizzeranno. Non penserò più al mio destino, non attenderò nulla, solo il susseguirsi senza fine di applausi registrati.
Lasciami cadere a vite, dico. Lasciami toccare il fondo, e poi restare lì, boccheggiante.
Dammi un po' della tua pessima erba, non farmi sognare mai più.




La mano ossuta di Louis tronca le lamentele, due nocche dure contro la mia faccia molle fanno il suono di una bastonata contro un sacco di carne vuota.
Stupido! Urla
Quello che vuoi è marcire, come se a qualcuno gliene fregasse qualcosa di te, di me, di tutto.
Quello che vuoi è una rivincita infantile, ma nessuno ti sta aspettando, nessuno resterà deluso.
La realtà è una soltanto, non esiste il fallimento, non esiste la morte.
Io ho visto il fondo e la cima! Io ho visto la bestia e l'angelo! Non c'è nulla da dissacrare! Nulla è sacro, tranne il fuoco e il vuoto, e ogni cosa è già persa nel momento in cui viene al mondo!
Svegliati! Respira!
Sei carne morta, non lo capisci? Non devi impegnarti oltre, sei già un nulla, un minuscolo insignificante dettaglio di un cataclisma mastodontico e incomprensibile.
Levati il cappello e scoppia a piangere, se devi, di fronte a sua maesta Il Reale.
Se ti illudi di restare indifferente, egli conficcherà le unghie dell'amarezza e le zanne del rimorso ben dentro le budella del tuo cervello, e ti strapperà i visceri e l'inconscio.
Nessuna droga potrà lenire il dolore. Nessun oblio potrà separarti dal tuo corpo che lentamente va a puttane.

Louis, vecchio enfatico Louis. Lo odio, ecco.
Non si può ignorarlo, non si può fuggire.
Lo seguo per strade piene di rumore e gente, attraverso l'astio ed il disgusto, attraverso l'ansia e l'ignavia, fino alla fine, fino in fondo.
Lo seguo per strade impervie e solitarie, accompagnato dal dolore degli arti e dal senso di colpa, fino a quando il fiato si fa pesante e la fatica intollerabile.
E lentamente cresce in me una gioia ultima, minuscola e poi lentamente più grande, immensa.
Perché ormai sono certo che quando infine crollerò a terra lui non si fermerà.
Non rallenterà il passo, non si volterà indietro.
Continuerà a marciare.

12/07/16

Come diceva quello

Non ti agitare
Va tutto bene
Fuori di qui treni deragliano, sistemi collassano, offerte d'amore vengono fraintese, urla di dolore vengono soffocate - sai com'è, la gavetta, ci sono passati tutti...

Tu come ti poni, per esempio, rispetto all'alienazione?
Io bene grazie.

Ieri ho incontrato un compagno, ha provato a vendermi un giornale. Il suo sorriso era compiutamente professionale, acceso o spento a seconda della proiezione di probabilità di acquisto.

Come se bastasse dire "alienazione", amici.
Come se bastasse definire: separazione del lavoratore dai propri mezzi di produzione.
Come se avessimo marcato stretta questa nozione di "mezzo di produzione", come se non si fosse evoluta a velocità differenziali proprio sotto il nostro naso.

Non ti preoccupare, però.
Sto qua io
Andrà tutto bene.

Forse sarebbe bene fare tutto il contrario. Un "mezzo di produzione" è ovunque può inserirsi una mediazione, una separazione fra un pezzo e un'altro del processo, di modo che tale separazione risulti organica al processo stesso.

Esempio: catena di montaggio. Diverse operazioni vengono separate per poterle affidare a diversi individui, e poi riconnesse nell'articolazione di uno spazio fisico, di un apparato industriale.

Alienazione è essere un pezzo, sempre e solo un pezzo di qualcosa. Senza feedback sulla riorganizzazione generale.
Non fraintendere: essere divorati e ricompresi in un insieme trascendente (Noi! Il partito! La civiltà occidentale! La Filosofia! La millenaria tradizione dei Padri!) non è privo di esaltante intensità. Eppure, il ritmo della Rivoluzione Tecnica Permanente dribbla costantemente tali forme di riconnessione.
L'azienda è una grande famiglia? Ci credi sul serio?
No.
Nemmeno io.
Brava.

Alienazione è produrre e godere su scale diverse. Produrre insieme, godere da soli.
ecco che l'intuizione confusa di tale disparità produce tensioni opposte:

Produrre da soli, godere da soli: l'artista, il titano, il grande innovatore. Colui che giustifica d'un colpo il suo ruolo insostituibile.

Produrre insieme, godere insieme: nessuno spazio per l'individuazione, qui. tutti fanno la stessa cosa. Vergognoso è riconoscere che ognuno fa la stessa cosa PER SUO CONTO, una copia di una copia di una copia nel tentativo disperato di connettersi in una roba unica.

Tu, per esempio, come ti senti rispetto all'alienazione?
Non ti sto chiedendo se sei alienato. Lo sei. Come lo sono io.
Non ha niente a che fare con quanto guadagni o quanto sinceramente gioisci. Non c'entra con l'essere sul punto di saltare dal settimo piano o la quantità di scopate mensili.
Però, suvvia...
Ci sono passati tutti, non credi?

Non odiare il tuo capo. La regola dice che egli deve SEMPRE essere più alienato di te.
Non è motivo per volergli bene, tuttavia.

Spero tu stia bene.
Non è vergogna, essere esattamente identica a tutti gli altri. Avere gioie qualunque.
Neppure fottersene e fuggire, però.
Dopo tutto, il potere non esiste, se non come controindicazione, disfunzione, effetto collaterale.
Come tutto il resto, d'altronde.

Saluti,

L.

04/05/16

Otto Alexander Steinnenman o Della Sopravvivenza



Quello che ho da dire non è serio
Nulla può esserlo in questa epoca. Nulla di tragico resiste, se non nella forma neutralizzata dello spettacolo.
Allo stesso tempo, quello che ho da dire non è ironico
Per motivi igienici mi impongo di non dare di gomito, di risparmiare al lettore il sarcasmo. Non mi nascondo dietro una presa in giro.

Cosa rimane? Le due forme del paradosso: quella estroflessa della burla mortale, ironia del caso che è la realtà nella misura in cui buca le forme interpretative (Situazionismo! Surrealismo! Dada!), quella introflessa della crisi depressiva, doppio vincolo che non può andare né tornare né sparire.

Eccoci al dunque: tutto questo non mi riguarda (se riguardasse me, il tuo posto non potrebbe essere più comodo. Ecco come funzionerebbe: ti racconto quello che mi tocca, e puoi scegliere se concedere o meno l'empatia. Nel qual caso, spingi un tasto e fai di questa rappresentazione un componente della tua autorappresentazione. Potere in cambio di identità. E' il gioco della popstar, del youtuber o del fashion blogger. Io però non cerco potere, dunque non concedo identità.)
Allo stesso tempo, tutto questo non riguarda te (ecco il giro inverso: identità e potere. Io mi prendo l'identità mentre ti spiego dove sta il tuo potere di cambiare le cose. E' il gioco moralista del prete o dell'influencer, sempre uguale e impermeabile al mutare del tasso di tecnologia implicato).


Abbi pazienza, lo so che tutto questo ti annoia. In fondo non c'è nessun ricavo, non ti stai divertendo, e non c'è niente quì che legittimi la tua vita o esalti la tua possibilità di cambiarla. Tu (come funzione discorsiva, come "pubblico" nel doppio senso di cui sopra) non mi interessi.
(ciò non toglie che il mio godimento sta tutto in quel gesto che non posso costringerti né indurti a compiere, con il quale svegli la Feroce Bestia della tua Libertà.)

Eppure.
Cosa dico quando dico "tutto questo"? La semantica è giocare sporco, il tentativo di fissarla una volta per tutte incontra la giusta derisione di un esito ancora una volta paradossale.
"tutto questo" è pura pragmatica, è formula magica.

Io come carne e sangue non mi faccio scrittura. Scrivo sulla superficie di un corpo che non è ancora soggetto, benché faccia finta di esserlo. Non accumulo potere, non accumulo identità. Resto cosciente dell'interferenza del sistema faccia-bocca-voce sul sistema corpo-mano-segno. Articolo la variazione alla seconda: tastiera-rete come una possibilità di distribuzione infinita.
Non penso di essermi spiegato, ma cerca di agire come se l'avessi fatto.

Non c'è bisogno di metterci la faccia. Non c'è bisogno di forzare ognuno in direzione della sua propria insicurezza. C'è una consolazione che non è pacifica, che non è irregimentata, e risiede nella infinita possibilità ignota oltre i circuiti ai quali abbiamo fatto l'abitudine.
Non c'è bisogno di ricostruire un corpo, un'identità, un potere. I circuiti possono funzionare indipedentemente se smettiamo di pensae che sia nostra responsabilità, nostro merito il loro funzionare.

Ancora meglio: i circuiti funzionano già indipendentemente. Postumanità in atto, cui ancora non corrisponde una variazione del pensiero.
La fabbrica come macro-macchina esistente, trionfo della defecazione. La società come marciume, esito inflorescente della produzione spasmodica.
Potere, identità, soggetto come sottoprodotti della costruzione di tutto ciò.



E non sarebbe nemmeno un risultato teorico, questo.
Si tratta del fottuto punto di partenza.
Il nodo di gordio non è tagliato né sciolto. Non è mai esistito. Nessuna conquista è possibile.

La vittoria del GesùCristo sulla morte è una invenzione didascalica. La vittoria del Buddha è la rivelazione che morte e vita non fanno poi tanta differenza.

Niente di nuovo, per Baruch.

La verità non si spiega. Risuona, "timpaneggia". Non ti fa più bello né più efficace né più felice. Povero piccolo essere umano, un ponte che si crede casa, un neurone che si crede pietra. Incapace di scorgere i miracoli, ipnotizzato da uno spettacolo che chiama realtà.

Che cos'è una crepa? E' un modo di cadere fuori dal piano di esistenza comune.
Certo che si paga un prezzo.
Talvolta è l'afasia
Talvolta è l'antiproduzione
Talvolta è la malattia, o l'euforia, o l'odio, oppure la repressione.



Ovviamente, il costo è alto, e più spesso si rimane in debito. E allora l'orizzonte della liberazione diventa una ossessione, una sostanza orientale da rincorrere. Il Dio di Spinoza che si fa Dio di Abramo, il suono dell'eternità si trasforma in puzza di carne viva. Il prezzo viene condonato in obbedienza.

Ma non credere: di nuovo si tratta di una mossa fasulla: potere in cambio di verità. Ancora meglio: chi condona non deve possedere la verità, è sufficiente che ti esenti dal cercarla per ottenere il potere. In fondo siamo tutti nel business degli alibi, no?

Non io, per esempio. E per esempio nemmeno tu. Vero?
Non mi faccio le pulci per insicurezza, e nemmeno vado da nessuna parte. Non supero ostacoli per dimostrare il mio valore, non ammazzo mostri per liberare principesse. Rimango sempre esattamente fermo, batto sempre sullo stesso punto. Godo degli ostacoli, mi offro in pasto ai mostri e lascio che le principesse si liberino da sole dai legacci della propria stirpe, scambino la propria purezza in postriboli bui con un pugnale, per tagliare con quello teste di tiranni.
Non consolo nessuno. Non c'è nessuna morale.

Sei solo uno dei tanti, uno sputo in faccia all'immenso, e alla fine muori. Questo scrivilo sul tuo bastone di maestro.
Non ci si organizza per prendere il potere, ma per distruggerlo.
Questo è tutto.

Che Avalokitesvara ci protegga.


31/03/16

Origin story

"I'm like a dog wif no legs, u'll find me where u left me"
Ninja, Hey Sexy




Quando ero un adolescente avevo idee luminose, con bordi taglienti, e uno spazio mentale reso lucido dalla mancanza totale di prospettive, o almeno è così che la ricordo adesso.
All'epoca, scrivere mi sembrava naturale, come respirare. Un'esigenza basilare, indiscussa. Leggere e scrivere, la circolazione dei flussi emotivi e delle idee in una Bestia Umana eterna ed immortale, incurante delle meschinità e della frustrazione, capace di far penetrare il suo ruggito immenso nelle pieghe di una lentezza informe.

Una forma di masturbazione onestamente non più originale di altre, nutrita nell'isolamento astioso e in letture crudeli. Senza maestri, senza compagni, libero di affratellarmi ai giganti, inevitabilmente ferito e disgustato nel trovarli poi in giro, accompagnarsi ad altri. Che altri avessero letto Nietzsche: un affronto. Che altri lo avessero capito: una inaccettabile bestemmia.

Ed ecco la radice della prima torsione. Scrivere per chi? La paura dell'incomprensione è banale, è un riflesso pallido del reale terrore, quello di essere capito e non essere in fondo niente di speciale. Fame di sintagma, sete di eternità, come possono venire a patti con lo scenario della provincia? Scrivere come se si fosse altro, come se si fosse altrove. Leggere e scrivere come respirare aria differente.

Immaginammo un cortometraggio, una volta, insieme al vecchio Renton, un amico di sentimenti simili solo in parte, ora assorbito in una carriera brillante, laureato di lusso in giurisprudenza. Un giovane - inevitabile cercare l'autobiografia quando non la si può gestire. Inevitabilmente, appena ci si conosce un po', il racconto perde il suo fascino - percorreva le strade della nostra cittadina provinciale. Si fermava a contemplare un fiumiciattolo sperduto, passeggiava fra i muri sbrecciati di un mastodontico residuato dell'era industriale, lungo un muro di costruzione etrusca. Fra le acque luride, fra i residui enigmatici ammonticchiati negli angoli, negli anfratti dei pietroni a secco trovava segnali, riceveva messaggi iniziatici, raggiungendo infine la realizzazione dell'irrealtà di tutto il contorno.

A posteriori, la faccenda è chiara: il senso di estraneità si trasforma in desiderio di un altrove che non è semplicemente altro, ma oltre. Non ci(mi) sarebbe bastato andarmene: cercavo invece la trasfigurazione. La verità, al suo apparire, avrebbe reso ridicolo e meschino ciò che fino ad allora era inevitabile e stolidamente reale. La menzogna si scioglie come neve al sole. La stupidità sparisce.

Inevitabile, con il senno di poi, la fascinazione esercitata dall'Ideale, nei suoi aspetti multipli: il Nirvana, il Sogno che si prende la sua rivincita sulla realtà, la Rivoluzione che sorge a vendicare e riscrivere il destino dell'umanità, la Filosofia che scopre le carte. Eccomi, dunque, a diciassette anni: comunista senza un Partito, dadaista senza Internazionale, buddhista senza Sangha, lettore avido di filosofia, messo sull'avviso prima ancora di un qualunque contatto dei pericoli dell'accademismo, impegnato a costruire sette immaginarie (vi ho mai parlato della Fazione Armata Spinozista?)

Chiuso nell'empasse, scrivevo nonostante me, nonostante loro. Non perdonavo alle persone intorno a me l'essere solo ciò che erano, la mancanza di vocazione eroica. Frequentavo i più strani, i sognatori e i perversi. Ero presuntuoso, arrogante, impaziente, sciocco, convinto di sapere ciò che non sapevo. Mi perdono pensando che questi difetti, tipici dell'autodidatta, prevengono le condizioni della propria correzione, condizioni che richiedono un Maestro.

Il resto della storia è banale, forse. All'uscita dalla scuola dell'obbligo non ero confuso, eppure non sapevo rispondere alle domande che mi erano poste. Avrei voluto, anzi, prenderle e scuoterle. Nella mia acerba sicurezza, non ero capace di dire ciò che provavo: che avrei preferito chiedermi cosa fare del mondo, piuttosto che cosa fare di me. Che cos'ero infatti io, se non il tentativo reiterato di sottrarmi all'integrazione in uno scenario repellente? Che cosa, se non un repertorio di nascondimenti, evitamenti, sotterfugi, doppi sensi? Come avrei potuto rispondere ad una domanda che implicava surrettiziamente la direzione inversa a quella di ogni mio sforzo?

Io avrei voluto morire per la causa (quale, poi? Le idee al riguardo erano assai complesse, come ancora lo sono), e mi si chiedeva di vivere per uno stipendio. Avrei potuto forse cedere, se l'alternativa fosse stata semplice, ma non lo era. Scelsi la filosofia, iscrivendomi in una città diversa dalla mia. Entrai in un collettivo, come era inevitabile. Presi ciò che potevo: un po' di buone letture, il calore di fare parte di qualcosa, le amicizie sincere che solo l'ovattata cesura universitaria può ospitare in una piccola città della toscana. Aspettavo qualcosa, ma cosa? Chiacchierando, mi vantavo di progetti grandiosi mai realizzati.

Uno di questi era un romanzo, intitolato con dubbia originalità "0".
Parlava di una periferia industriale agitata da una sommossa, gruppuscoli anarchici impegnati in lotte intestine. Parlava di ingegneria sociale, di amore, di morte... il solito insomma. finii per tenerci talmente tanto che mi era doloroso scrivere.
(Smettere di scrivere, come smettere di respirare. Vivere in apnea, abbandonati ormai dalla meravigliosa bestia dell'illuminazione, incapace di cogliere l'eco del suo ruggito.)

Poi l'Irlanda. Freddo, disgustoso isolamento. Fra le altre cose, trovarsi davanti per la prima volta l'università come istituzione funzionale alla diffusione, amplificazione e capillarizzazione delle dinamiche capitaliste.
Fino a quel momento, per me università era il nome di un relitto, una tradizione tenace, insensata eppure incapace di morire, che ancora ostinatamente oppone le sue distribuzioni di potere filiativo e clientelare ai nuclei ugualmente deboli e morenti di potere filiativo e clientelare al suo esterno.
Nel passaggio da dentro a fuori, trovai un incremento vertiginoso di pragmatismo, di capacità tecnica-organizzativa. Ognuno degli enigmi gelosamente custoditi in uffici misteriosi, ogni alzata di spalle "eh, che ci vuole fare, è l'italia" era sparita. Tutto era alla luce del sole. Eppure, ogni cosa era vuota.

Eliminate le contraddizioni, non restava spazio neppure per quelle forme di rimessa, gli spazi carsici dell'Ideale nel deserto della realtà. Il problema si espandeva smisurandosi. Lo spazio iniziatico non era più disponibile. Cominciai a leggere Deleuze, Debord, i francofortesi. La letteratura a disposizione era anni luce avanti a quella circolante di norma in Italia(1), ma gli studenti leggevano perlopiù senza passione, senza urgenza. Non avevano il terribile sospetto che affila i nervi: di alienarsi sempre di più, andando avanti. Di pagare cara l'intelligenza, rendendosi insopportabile lo spettacolo barocco e permanente del potere, i residuati tribali. Di doversi nascondere, per non suscitare il sospetto dell'Ignoranza Sovrana, la ringhiosa reazione del Potere Analfabeta.

E poi il ritorno. E Torino. La meravigliosa Torino, in cui finalmente i compagni hanno chiari i termini dell'equazione. Migliaia di chilometri dallo stordimento provinciale, dalla quieta accettazione dell'esistente. Reazioni! Discutibili, volgari, intelligenti, sperimentali. Ovviamente, vanità e superficialità. Ovviamente: pose intellettuali e ricercata affettazione.
Per la prima volta, una serie di mitologie personali tornavano a deridermi sotto forma di persone e cose, reali. Non immagini. Non il ruggito della Bestia, non una trasfigurazione, ma una resistenza sorda e continua, carne e sangue e tanfo, e tutti i pericoli, le compromissioni, la realissima realtà. E' a torino che trovo un Maestro, che si rifiuta di dirmi in cosa credere e sbriciola le traiettorie troppo semplici. Un Maestro che chiude le porte, spezza i voli, taglia le illusioni e introduce sua maestà Il Concetto come se fosse sempre stato lì, come se non potesse essere ucciso. Non so dire la gioia e il dolore, il tempo troppo vicino non può più essere raccontato.

Ed è a Torino che comincio a scrivere per qualcuno. Voglio capire, e voglio che capire serva. Voglio sottolineare le crepe, trovare i buchi. Ma non voglio essere io a farlo: per troppo tempo ho vissuto del residuo delle mie parole, trovato una rassicurante identità nelle pieghe di ciò che altri, mi illudo, non possono capire.
E' a Torino che comincio a desiderare la Claredo. Ed è forse sempre la stessa cosa: la Rivoluzione personale che è il Nirvana, il Nirvana collettivo che è la Rivoluzione, il sogno che è Realtà Rivoluzionaria... eppure lo voglio sul terreno. Mi vergogno della riduzione, dell'astrazione dei tentativi precedenti. Se bisogna parlare, bisogna farlo con la lingua. Se occorre scrivere, bisognerà farlo per l'amico. la Verità è una Bestia troppo enorme per infilzarla d'un colpo. Occorrerà prima di tutto essere sinceri.

E poi il ritorno, che cancella ogni illusione. Pesato, misurato, trovato mancante: una ulteriore e magnifica lezione di quel che significa la disparità fra l'immagine artefatta di se, a proprio uso e consumo, e la serie infinita degli esseri umani che ci include come variazione minima. La tentazione di rigettare la prima o la seconda.
Ancora, di questo non parlo se non in modo obliquo.
Il ritorno, nella piccola città antica. Il ritorno, le facce vecchie e le facce nuove. Nessun modo per spiegare, per raccontare cos'è successo. Un salto indietro di dieci anni, a quando la realtà era scollata, divisa in due: fuori e dentro la testa.
E ironicamente, tutto si ripropone: la lontananza ha creato di fatto una alterità che forse prima era solo un desiderio.

Il tentativo di scrivere si inaridisce. Torna inavvertita l'afasia. I tentativi di mandare avanti Crepe sono velleitari, muti. L'incomprensione e la comprensione. I vecchi problemi...

E poi, ecco, oggi mi sono svegliato, e volevo dirvi che cosa mi passa per la testa, e ricapitolare tutto, e capire io per primo da dove mi viene il prurito sui polpastrelli.
Perché scrivere è come grattarsi. Inutile. privato. Indecente. Necessario.

Lorenzo

(1) Per "di norma" si intendono unicamente i limiti della mia scarsa esperienza all'epoca.