17/10/15

Rivoluzione


Ti sembro uno che scherza?
Io non so cos'è una metafora, non so cos'è un'allegoria. Non capisco l'ironia. Non ho senso dell'umorismo.
Io sono serio, dall'osso all'osso. Duro come la pietra e tutto d'un blocco.


Non mi piacete.
La superficie, come un taglio, si insinua nei vostri modi, nei gesti, negli sguardi fino nel profondo. Si capisce dalla sorriso smorfioso, dai tentativi di ilarità ostentata, che sotto si stende dell'orrore, una lugubre pozza.
Una vita senza sonno. Idee piccole o riciclate, espressione mediocre. Duecento like per coprire la paura.
Esserci subito o scomparire, e gli adattamenti tattici susseguenti:
Intensità che latita. Tutta superficie, tutti giochi di parole.
L'intensità impastata in ideologia densa come gli ammassi di alghe proliferanti velenose e plastica che soffocano il pacifico.
Da tutte le parti.
Con o senza i risvoltini.
Con o senza un'educazione classica.
Con o senza una "coscienza politica".
Vivere per scontato.


Con un occhio spalancato e l'altro pesto vi guardo passare da tempo e provo a tenere la mente lucida fra le correnti di compassione e dispetto.
Non siete voi il mio nemico.
Sarebbe troppo facile, rassicurante, prendervi di mira, disegnare una simmetria, fra voi e me, che faccia la paura solo vostra, la ragionevole indignazione solo mia.
Persino dentro la divisa, anche voi siete esseri vivi, futuri buddha, destinati ad uscire un giorno dalla ruota delle rinascite. Oppure no, sticazzi delle mitologie importate come di quelle nostre. Anche voi siete esseri umani, scimmie febbrili come lo sono io, esseri transeunti, capaci di trasformazioni multiple, di miracoli e rinascite.

Anche se sarebbe così facile, così immediato e riposante, dichiararvi guerra, la consapevolezza mi trattiene.
Consapevolezza del fatto che il sistema di domesticazione del simbolico digerisce alla stessa maniera l'enfasi e il disgusto, la rabbia e l'accettazione. Nel bene e nel male, secondo un vecchio slogan, basta che se ne parli, e l'unica differenza è quella fra un passo avanti ed uno indietro, nel balletto incessante della società dello spettacolo.
A che pro tentare di distinguersi, ferire? Disgustare? 
Non sarebbe ormai che replicare il movimento con il quale tentate di distinguervi gli uni dagli altri (in versioni più raffinate, c'è anche chi tenta di distinguersi smettendo di tentare di distinguersi. Minimali. Normcore.)
La rincorsa all'originalità si è consumata, non ne rimane che l'eco sgraziato, nello spazio senza direzioni. Le avanguardie si disperdono a raggiera, e nessuna si preoccupa più di segnare la via, di preparare un destino: la maggior parte si perderà nel terreno desertico, lontano dalle linee di rifornimento, o verrà ben presto accerchiata dalle sapienti manovre del nemico.


Così mi mordo la lingua e ve le lascio passare tutte.
Mi mordo la lingua, ficco le mani in tasca, a fondo, e mi ripeto che alla fine le vedremo tutte. Che un giorno verrà la resa dei conti, e l'ironia degagé, il tempo speso davanti ad uno schermo, avranno un costo più che reale.
Quando sono sentimentale, mi consolo e vi perdono, pensando alla vita di merda che fate. Che dovete necessariamente fare, presi come siete nell'esercizio frustrante della costruzione di voi stessi a favore di camera. Altre volte la cosa non mi pacifica, e anzi finisco per sentirmi in colpa, ricaduto nella trappola dei rancori, delle fantasticherie di vendetta.

Niente di ciò basta.
Eccovi: riempite il mondo.
La mia generazione: una manica di stronzi postideologici, menefreghisti, egoassorbiti sulla superficie di un pianeta in esaurimento.
Sia detto senza offesa.
Copie-carbone dei padri peggiori.
Sempre più rimossi dalla realtà.
Sia detto con affetto.

A stare calmi sempre, l'odio forma un grumo appena sotto il plesso solare.
Hai un bel cercare di sfogarti. Hai un bel cercare di mettere tutto in prospettiva.
Tanto varrebbe ritornare ad una delle più copiate invenzioni del made in italy.

Questa non la spiego. Chi la sa, la sa. Gli altri non li spaventiamo.

E poi, come sempre l'idea si presenta da se. Semplice, lineare. Nettissima. Per giunta, niente di nuovo.

Occorre fare la rivoluzione.

"Ma come - direte - ancora con la rivoluzione? Ancora con la materia, con i mezzi e i rapporti di produzione? Non sai che è una prospettiva utopica?"
Così rispondete, in genere.
Dal netturbino al punkabbestia, dal giovane borghese al cineasta, dall'affettato filosofo al militante politico, eccovi di nuovo uniti, contro questa che è la più semplice, la più ovvia delle trovate.
Si, amici.
Si, signori e signore.
Si, compagn*.
Occorre fare la rivoluzione.



Quanto alle vostre obiezioni, residui marci di quella che, nonostante lo sia, non vi va più di chiamare ideologia, la cosa è presto detta.
La rivoluzione non è un evento desiderabile.
Non è un progetto credibile.
Non è una possibilità realizzabile.
Non è un sogno.

La rivoluzione è un'esigenza radicale

Guardati intorno: la forma-rivoluzione ossessiona ogni evento, ogni struttura della realtà che abiti.
Il suo schema funge da centro ordinatore di ogni movimento sulla superficie degli eventi. 
Dallo scandalismo giornalistico alla moda, dalla musica rock alla retorica politica.
Rivoluzione tecnica.
Rivoluzione musicale.
Rivoluzione estetica.
Rivoluzione stagionale dei costumi, ossessiva, ripetuta.
Le ore che passi dietro uno schermo non servono a questo, a stare dietro alle "tendenze", sequenze rapide di trasformazioni (presunte) radicali, benché separate, neutralizzate. In fondo, non è questo che si inscrive nell'ambizione di ciascuno? Rivoluzionare il proprio campo. E' grande, è un genio colui che cambia le regole, che si fa valere, che stravolge.
Il sistema non è altro che un complesso montaggio che gioca l'evento contro l'evento, che neutralizza la portata trasformativa schiacciandola su un piano singolo, capitalizzandola in una carriera privata. La rivoluzione è l'intensità inappropriabile di una trasformazione singolare, concreta. L'evento in forma pura. La rivoluzione è quello che cercate ogni minuto di ogni giorno, dai risvoltini al veganesimo, e il fatto che non lo sappiate è alla base della costante frustrazione vostra e mia. La rivoluzione è la vostra ossessione segreta, che ogni giorno vi sveglia e vi sfianca, che ogni giorno tradite.
Ed è per questo che giocare al gioco della "comunicazione", fare il surf sulle onde del desiderio rivoluzionario, è giocare col fuoco.

Questo schema è insieme accurato e paradossale. Può esserlo dal momento che l'arte, da tempo, cerca di produrre sotto il segno e nella cornice dell'individuo ciò che può esistere solo collettivamente. In termini soggettivi, quindi, se ne può dare descrizione appropriata solo attraverso un paradosso.

Ecco messa a nudo la radice della mia frustrazione.
Sarebbe facile, dichiararvi già morti, privi di ogni energia, burattini di legno o statue di pietra, zombies. Cosa potrei mai rimproverarvi?
Invece da ogni parte siete vivi e sani e belli. Eleganti, e pieni di perfezione, pieni di intelligenza ed intensità.
Sarebbe facile dichiarare che vi "ingannano", che dovreste "svegliarvi", "prendere coscienza" della realtà. E invece no.
E' in piena coscienza, e nel vostro pieno diritto che continuate a svendervi, a fottervi, a prostituirvi per un piatto di ceci. L'uno contro l'altro, e bastano le quinte di un talent, la cornice blu di una permanente sfilata, a torcere ogni vosta energia ruggente nel guaito di un animale domestico, seducente.
E vi deprimete per stronzate. E vi incazzate per stronzate.
E tutto è sempre normale, tutto è sempre già visto: perché il cinismo è fico, come la risposta depressiva, l'ebefrenia della scoreggia, l'ossessione compulsiva che passa per intelligenza. Invece è ridicolo lo schizofrenico, e l'unico role model che non passa nelle centinaia di ore di serie televisive che guardate è quello di un rivoluzionario serio, razionale, sereno, contento e benevolo.

Non che non ci vadano vicino, in fondo. E più ci si avvicinano più fanno colpo. Tuttavia alla fine, che disdetta, quello "reale" dei due è sempre il debole, sempre la merda. E il vero rivoluzionario nient'altro che il pezzo staccato di una personalità psicotica.

Ma io queste cose come ve le dico? Come ve lo dico che ogni vostra qualità mi fa incazzare per come la sprecate? Come ve lo dico che tirate a campare quando dovreste mirare all'eterno, o quantomeno a un briciolo di reale felicità? Come ve lo dico senza sembrare un prete o un rosicone?
Eppure come non provarci? Meglio fallire, mi dico, che soffocare.
E quindi ripetiamo:

La rivoluzione non è un'idea.
La rivoluzione è l'unica cosa che può rendere reale la tua finta vita.
Però non basta prenderne coscienza, dobbiamo farla.
Passo dopo passo, pensiero dopo pensiero, osso dopo osso.
Ti voglio bene.

Difaul.

15/10/15

Più pensi, meno capisci

Più pensi e meno capisci.
Come quando ripeti una stessa parola centinaia di volte, e alla fine si arrotola su se stessa, polverizzata, flusso di suoni ininterrotto senza senso.

Eppure non è forse questo il meccanismo fondamentale del mantra, del rosario, del namasmarana? Il nome ripetuto. La cancellazione di senso, la riduzione a puro effetto. (E' essenziale che il nome sia sacro? O non diventa sacro dopo l'ennesima invocazione?)
Non è forse questo un nome? Un effetto dispiegato sul campo dei nomi propri, realtà reale che precede/eccede la rappresentazione?

Più pensi, meno capisci.
E allora, a che serve il pensiero? A crivellare i pensieri, che sono la sostanza del vivere.
E' un uso singolare quello che oppone il singolare al plurale per giocarli l'uno contro l'altro. Come l'idea che si gioca contro le idee singole, o La Filosofia che si sbrindella in filosofie plurali.
Non è mai un passo neutro, quello dal singolare al plurale.

Ma a che serve il pensiero? A farci più masticabili a noi stessi? E come finisce? Con una stretta di spalle, con un grido di giubilo (in ogni caso, l'espressione può essere sintetizzata in un "allora è così", o puttosto "era questo dunque..."). O non è invece uno sforzo produttivo? L'azione! grida qualcuno. Non se ne può fare a meno. Bisognerà essere "concreti". E' necessario.

E a cosa servirà l'azione? A crivellare la materia, a separarla, a polverizzarla fino a che i nomi a loro volta polverizzati possano raccoglierla, aderirvi, e riformare nel montaggio del desiderio sparso e delle forme indistinguibili una eco del pleroma originario? La cosa ha l'aria di un pio sogno.
Oppure servirà appunto l'azione a non dover pensare? Un colpo di spada, ed ecco il nodo in terra, in pezzi.

Nell'insicurezza, bisogna ricorrere alla rozzezza delle generalizzazioni, (Non potremmo nemmeno parlare senza evocare il fastidio di interlocutori. Non si può pensare en plein air, e anche l'interlocutore più cedevole, socratico, dichiaratamente pretestuoso diventa, se appena si è un po' più onesti, la sede di un contraltare inquisitorio.)

Insomma, cosa vuole questo pensiero? Abbiamo il coraggio di dichiarare almeno questo: che esso più che servire vuole da noi qualcosa, lo pretende? La chiamata, la vocazione, non ha nulla del soave e seducente canto angelico. E' la lagna del bimbo che pretende ripetendo con la pazienza più ossessiva, con l'urgenza più radicale, l'incomprensibile.

Si può forse addormentarlo, ripetendo all'infinito una stessa parola, o una serie ritmica di parole. Si può forse farlo tacere, raccontandogli una storia.

E' tutto? Basterà questo? La ripetizione incessante? Non c'è dunque alcuna verità nuova da enunciare? Nuovi orizzonti? Nuove crisi? Nulla su cui accapigliarsi?
No.
Non fa parte del nostro gioco, la polemica. E' solo una moda, e assai tarda, per giustificare l'editoria.

Va detto che il nostro è un gioco antico, e che è un gioco da codardi. In un mondo in pezzi, si tratta di giocare un gioco di collaborazione infinita. Ci si può trovare al tavolo con chiunque. La scelta "di parte", l'"onestà intellettuale", la "coerenza" si paga, in termini filosofici. E' un limite, un peso.
Ma nel gioco che giochiamo, vincere è considerato assai rozzo.

Pensare fino in fondo che cosa, se non la realtà? E come pensare la realtà fino in fondo, senza portarsela addosso, pensando?

Più pensi e meno capisci. Lascia indietro i concetti di guadagno e costo, quelli di vittoria e sconfitta, in un primo momento. Potrai riprenerli più tardi, quando avrai capito come tenerli da entrambi i lati, in un conteggio senza unità di misura, in una contesa senza contendenti.

Le tentazioni sono innumerevoli, metafore seducenti: la battaglia, il mercato, l'opera d'arte, l'architettura, la genealogia.
Non si può rifiutarne nessuna. L'unico peccato, nella singolare etica che determina la regola del pensiero, e cedere ad una soltanto, prendendola troppo sul serio.
Come precauzione preliminare, sarebbe ancora meglio mischiarle: pensiero come contrabbando, come artificio incestuoso, come critica artistica, come sabotaggio strutturale.

Più pensi e meno capisci. C'è un godimento singolare in questo. Uno sfondamento. Il pensiero è una forma di disattivazione del corpo: per quale motivo? Non solo per la banale immobilità dello studio, o il manieristico abbandono della posa pensosa, ma per una certa attitudine.

E' necessario procedere, in un punto cruciale, a corpo morto. Farsi terreno, e non passeggiatore. Atmosfera, piuttosto che volatore. Attendere passivamente che un daimon di passaggio sferri il colpo.
Ci sarà tempo, poi, per definire una critica traumatica o una idraulica degli spruzzi di sangue, una distinzione capillare dell'ematoma o una stratificazione epidermica interessata.

L'essenziale, si fa di colpo, o meglio è fatto di colpo.
Il bimbo che urla, una volta grande, ricorderà forse il frammento di una storia. Si può dire che è quello lo scopo?

Manco per il cazzo.
Piangendo non mi faceva dormire.