22/06/15

Post muto




 Avant-garde è rompersi le ossa contro il limite logico, oppure titillarne le frange estreme in complessi origami di vuotezza?









Boom

15/06/15

confessione

C'è una cosa che vorrei dire, forse un po' troppo sincera, ma tant'è. Se fosse il 1500 me ne andrei in piazza ad urlarla, o nel posto di una qualche azione collettiva, ritualizzata, di quelle che facevano la vita di una città (il mercato? La fonte, con le lavandaie intorno? La casa del popolo? La chiesa?) - ora, come si sa, le città tendono ad essere animali morti, purulenti, corpi cavernosi invasi di larve che sciamano in modo parassitario da dentro a fuori, da fuori a dentro. Giungla, Campo di battaglia. Impermeabile al senso.
Non mi resta dunque che scriverla qui. Compensazione povera e miserella: gettare in un crepaccio ciò che si vorrebbe esporre allo sguardo di tutti. Nascondere ciò che si ha da mostrare: la sostanza dell'ipocrisia e dell'esoterismo, da cui non può venire che male.

Egoismo: sottrarsi allo scandalo che si porta dentro, istituendo una distanza fra il pubblico e il privato, rivendicando (?!) il diritto a pensare ciò che si vuole, e a scriverlo, come se il pensare e lo scrivere fossero affari individuali, azioni che invece di dispiegare un campo di interazione lo chiudono, un guscio di concetti sull'ego, neutralizzazione masturbatoria. La pratica del pensare ciò che si vuole è pericolosa e mortifera: io penso solo e sempre ciò che devo. E quando fallisco nel fare ciò - e fallisco spesso - penso e dico ciò che non posso non dire. Non mi prendo mai la responsabilità (?!) delle mie azioni, dal momento che esse stesso sono sempre risposta, e al tempo stesso interlocuzione. L'atomizzazione della rete di rimandi che ne fa la sostanza è di per se un crimine, e solo un crimine fa il criminale, e dunque l'uomo.

Ed ecco che forse siamo più vicini a quella cosa che vorrei dire, che vorrei dire forte, come se ancora ci fosse una comunità ad ascoltarmi, il senso di esseri umani raccolti sotto un destino comune, e non la polvere di esistenze individuali tenute insieme da vaga simpatia, calcolo di interesse...
vale la pena, essere sinceri? Forse, ancora vale la pena.
In guardia, tuttavia, contro il pericolo di pensarlo come concetto primitivo, questo della sincerità. Come se vi fosse un centro lucido dell'individuo, dal quale il pensiero, la parola sgorga verso l'esterno senza disturbi nè interruzioni. Come se si potesse essere "fedeli a se stessi".
Una persona è piuttosto un fascio di desideri proiettati sulla sfera ineffabile della virtualità. Una potenza da realizzare. Eccolo, l'unico dovere, l'unica regola.

E quello che io ho da dire è: ho fallito.
Devo dirlo, devo dirlo forte e ad alta voce, perché solo il fallimento insegna, e solo attraverso esso posso dire: io so. Mentre da ogni parte il mondo è rovesciato, ed è colui che non ha fallito ad avere voce, io devo dire di me stesso: ho fallito.
Potevo fare e non ho fatto. Potevo essere e non sono.
In guardia! Non chiederti di chi è la colpa, non chiedermelo. La colpa può essere calcolata (né si darebbe il concetto, senza la possibilità di un calcolo) ma il calcolo non risponde ad alcuna esigenza vera: ti solleva solo dal pensiero che anche tu potresti fallire. Ti assolve dalla natura collettiva, complessiva, organica, sistemica del fallimento.

Il mio fallimento si chiama: potere, società, ordine. Ogni individuo deve fallire costantemente, se si vuole che una società giri in modo ordinato. Più siamo, più dobbiamo fallire. E' essenziale. L'energia risultante dei nostri tentativi frenetici è ciò che tiene in ordine e in movimento la realtà che abitiamo.
Ma questo, di certo, non ti interessa. A me per primo non interessa (più). (Di chi è la colpa?)

Essenziale è ritrovarci, al di quà del nostro fallimento, e guardandoci negli occhi decidere cosa fare della polvere di aspirazioni infantili che abbiamo grattugiato contro la superficie scabra della realtà.

09/06/15

Manifesto

Ho sempre voluto scrivere un manifesto. Alcuni dei testi più belli che io abbia mai letto sono manifesti: I manifesti del surrealismo, il manifesto del Partito Comunista, Il metamanifesto dada, che mi ha insegnato come si scrivono i manifesti:

Per lanciare un manifesto occorre:
A, B, C.
Irritarsi e affilare le ali per conquistare e diffondere tante piccole e grandi a, b, c, e firmare, gridare, bestemmiare, accomdare la prosa in forma d'ovvietà assoluta, irrefutabile, provare il proprio nonplusultra e sostenere che la novità rassomiglia alla vita come l'ultima apparizione di unacocotte prova l'esistenza di Dio. [...] Imporre il proprio A, B, C, è una cosa naturale, e perciò deplorevole

Andando di buon passo nel nostro su e giù sul dritto e rovescio del pensiero diremo che questa frase mi ha preso per la colonna vertebrale e mi ha scosso, mi ha scosso vigorosamente, mi ha scosso da cima a fondo. Ripeto: Naturale, e perciò deplorevole.

Intellettuali, artisti e hippies: smettete subito di cercare il contatto con la vostra natura. Il contatto con la natura è scivoloso, immorale, deplorevole. E' proprio dal lato della natura che siamo manipolati (vale a dire: l'idea di naturalità funziona come alibi per qualunque porcata. L'uomo è naturalmente portato a cercare la soddisfazione. L'uomo è naturalmente egoista.)
La vera arte, l'arte della paura e del desiderio, è l'arte dell'affinamento di se che fa il paio con l'essere artificiali.
Le maschere smascherano, solo ciò che farai di te stesso ti rivela. (A chi poi? Questo non è importante. Oppure lo è troppo, per questa faccenda meschina delle parole.)
Liberarsi delle proprie responsabilità è soccombere, dal momento che solo la responsabilità e il dolore ti appartengono veramente. Non il corpo: la ferita. Non la forza, lo sforzo, e il cedimento più di tutto. Eccetera.



Per lanciare un manifesto occorre: A, B, C.
Il potere travestito da natura gioca a nascondersi, rinuncia alle parole d'ordine per un ordine numerico senza parole. Si accontenta di segna-posto, di parole vuole e teste vuote. Sogna un insieme di membrane capaci di contenere e smistare corpi docili.

Qual'è il senso di un discorso che contenga delle ragioni, che proietti un ideale rapporto definito fra un Io e un Voi e un Loro? Quale verità materiale ancora resiste alla natura schiumosa dei nostri rapporti? (Io, una bolla, e tu, una bolla, e sorridimi senza venirmi troppo vicino, che ogni prossimità trascolora presto nel disgusto)
Non pretendo di farlo bene, e nemmeno di farmi capire, ma al di là dell'ipocrisia (alla quale pure occorre cedere, vivendo come si vive su una crepa, ben seduti sulla verità della quale non tolleriamo la visione) quale forma di linguaggio può ancora sollevarci dalla misera? O non sarà il silenzio? E quale offesa è più adatta a penetrare la coscienza estetica dilatata di una generazione che non crede più all'esistenza degli esseri umani?
Io e Te e Loro, o meglio il premio, la prova e il trucco. Io che devo inventare Loro per convincere Te, per essere finalmente Io (un piccolo cumulo caldo di affetto narcisistico). Altrimenti?

Il manifesto che intendo non ha un inizio ed una fine. E' il verso di un animale mitico, un ululato ininterrotto, un ruggito antiumano, la dissociazione completa del vero e del falso e di ogni idea singola. Come è ovvio, non sarei in grado di scriverlo. E' innaturale, è mostruoso, più che ogni altra cosa.



Con questa mia (lettera? Enunciazione? Lamentazione? Flusso libero? Serie di note sparse?) occupo il luogo inoccupabile di chi parla all'orizzonte vuoto, e dunque mi rendo ridicolo: le mie parole non riguardano nessuno. Dunque, probabilmente, esse sono vere. Vere nel senso in cui è vero ciò che non parla più di niente: il significante che attirerà il suo proprio significato, come un indovinello, o un koan, o un gioco iniziatico. Senza meriti né ragione, una litania da salmodiare con voce uguale sillaba dopo sillaba fino a far venire il sonno.

Non prendere sul serio la realtà. Non ti sembra buffo, tutto questo? Rimanere vivi è di per se da morire dal ridere, e ad aggirarsi per le strade c'è da rimanere esterrefatti dall'estensione dei meccanismi adattivi, di quanto siano elastici i limiti dell'autoinganno.
Non intendo: ridiamoci su. Riderci su è da stronzi cinici che si possono permettere la distanza comica dalla tragedia, o almeno si sforzano di crederlo (il che è lo stesso). Intendo: diventare matti folli schizzati alieni assolutamente estranei.

Ma no, no.
Rientriamo nei ranghi.
Ci sono pensieri buoni e rigorosi da pensare,
Storie affascinanti da raccontare.
Non si è mai soli come si pensa di essere
Né capaci di tutta la crudeltà
che ci si sente nelle budella
Eppure la realtà prude, tutta insieme, come una enorme macchia di scabbia
Ed è così che sai la differenza
Fra quella e il sogno.