27/04/15

Pudore e fastidio

Ultimamente provo un certo strano pudore. E' una sensazione che interviene appena prima di esternare qualcosa: un certo grado di disgusto, di approvazione, di sostegno che provo nei confronti di qualcosa, o di una esternazione altrui.
Non è una cosa piacevole: da molti punti di vista stavo meglio quando mi sentivo libero di dire la mia in qualunque situazione, ed anzi dal commentare, interpretare, giudicare, deridere eccetera ho sempre tratto una certa soddisfazione.
Negli ultimi tempi, tuttavia, qualcosa è cambiato.



L'altro giorno, ad esempio, una certa riluttanza mi ha preso appena prima di condividere su facebook uno status di un amico, volto ad esprimere sdegno rabbioso per gli status di suoi conoscenti, giubilanti per la morte di innumerevoli migranti nel mediterraneo.
Intendiamoci: non dubitavo delle mie motivazioni. Di certo sono d'accordo con il mio amico: chi gioisce della morte altrui fa un po' schifo. Però per qualche motivo mi sentivo comunque a disagio, nel ribadire la mia posizione.

Avrei potuto mettere la cosa sul conto dei social network: che barbarie trasformare l'elaborazione privata del trauma in uno spettacolo starnazzante di prese di posizione tutte uguali. Che tremenda involuzione, quella che ci permette di trasformare immediatamente in parole sentimenti nemmeno provati del tutto, di esorcizzare pensieri rovesciandoli nel flusso della comunicazione universale, usandoci gli uni gli altri come sciacquone emotivo.



Non sarebbe stato del tutto giusto, tuttavia, assegnarne la colpa allo strumento tecnico: dopo tutto, ogni gioco comunicativo è intimamente umano, e se lo spazio in cui le pratiche si articolano è relativamente nuovo, le motivazioni e i bisogni che le muovono sono antiche quanto la specie.

A chiarirmi la questione, almeno in parte, è stata la lettura di uno studio di un semiologo torinese sul caso Charlie Hebdo: vi si osserva come un pattern ricorrente domini il variare di segno dei messaggi intorno ad un evento traumatico, né più né meno che l'espandersi delle onde circolari nell'acqua.



Al di là delle osservazioni acute presentate nello studio, un particolare mi ha colpito, lasciato perlopiù implicito: ogni affermazione, ogni atto comunicativo si struttura sulla superficie liscia della rete, né più ne meno che sulla superficie liscia del lago, secondo una progressiva presa di distanza.
E' plausibile pensare che quelle prese di distanza simboliche in un contesto concreto, in cui la visibilità e la possibilità stessa di comunicare è prodotta da una disposizione spaziale e geografica, abbia un riflesso sulle successive disposizioni spaziali e possibilità di comunicazione - secondo il principio per cui, dopo aver litigato, due persone tendono ad evitarsi, e in seguito a crisi vieppiù profonde la società si struttura in gruppi determinati da reti di relazioni schismogenetiche.



Ecco, tuttavia, che nel contesto delle reti, in cui la comunicazione avviene in uno spazio virtualmente senza distanze (conta solo la presenza o l'assenza di una connessione, l'interruzione o il mantenimento di essa), la "presa di distanza" è un gesto isterico, che bisogna ripetere costantemente. 

La qual cosa, va ricordato, ha conseguenze enormi anche per il concetto di identità: l'identità sociale, da che uomo è uomo, si articola in base a rapporti spaziali. Da dove vieni? Dal centro o dalla periferia? Dal quartiere popolare o da quello residenziale? Dal nord o dal sud? Dalla capanna delle donne o da quella degli uomini?
E ancora: dove vai? In discoteca o al pub? Al centro sociale o all'apericena in centro? All'università o in fabbrica?
Il lavoro sull'identità, nelle due direzioni della costruzione di identità e decostruzione di identità è costantemente un lavoro di raccordo, di mediazione, di delimitazone di spazi.
Anche l'identità di secondo livello di "soggettività" astratte, ad esempio i problemi di definizione di un "ambito" disciplinare, vengono affrontati secondo una metaforica dei confini, degli attraversamenti, dei raggruppamenti eccetera.



La vulgata contemporanea vuole che questa sia la società del "protagonismo", della identità spettacolarizzata. Vi sfido a guardare per intero anche una sola edizione di una rubrica "costume e società" di un telegiornale senza ritrovare questo luogo comune.
Al di sotto di esso, forse, una più profonda verità può essere ritrovata: oggi ogni identità è performativa proprio perché deve essere costantemente riprodotta attraverso la performance. La categoria aristotelica di sostanza ha di fatto invertito i rapporti con la categoria dell'agire.
Non si può dire, tuttavia, che la categoria dell'agire non ne abbia fatto le spese, soprattutto dal punto di vista dell'agire comunicativo. L'assenza di un contesto spaziale, la necessità di produrlo attraverso l'azione - e la comunicazione, vale a dire la necessità di far dire ai gesti e alle parole il mio posto nel mondo fa sì che essi non possano voler dire nulla (o molto poco) per se. Si tratta di rovesciare le intuizioni della linguistica pragmatica: il significato rilevante del messaggio va dedotto dal contesto, l'assenza di contesto per converso condanna il messaggio alla completa irrilevanza. Per questo qualunque cosa, su facebook, suona come rumore bianco, complemento di ego assolutamente fastidioso.



Attenzione: non è una questione di intenzione. Non vale l'obiezione "ma io volevo appunto dire ciò che ho detto, non atteggiarmi a persona che dice le cose del tipo di quella che io ho detto". La lettura delle esternazioni, infatti, andrà a cercare la malafede anche laddove non c'è, e non c'è segnale onesto, capace di discriminare con esattezza: la differenza in questi casi è tutta, e solo, negli occhi di chi guarda.
E' forse questo il motivo per il quale la più banale espressione di cordoglio relativa ai drammi del presente (corpi crivellati di proiettili nell'africa centrale, affogati nel mediterraneo, crivellati di proiettili in francia, fatti saltare in aria a Gaza...) può venire sprezzantemente chiosata come tentativo di mettere in mostra la propria umanità, o impegno sociale "da dietro un computer" (ed è interessante notare come la virtualità del contesto, pur senza essere interrogata, venga comunque sempre sottolineata e interpretata esattamente secondo gli effetti che abbiamo rilevato, vale a dire come elemento in grado di neutralizzare il messaggio).


Pudore e fastidio - atteggiamenti che non considero sani né giusti, tutt'al più il campanello d'allarme di una disfunzione - interrogati abbastanza a fondo parlano di una plasticità estrema del linguaggio, capace di rovesciarsi da dentro a fuori secondo una curiosa simmetria. E dunque, dell'insofferenza rispetto ad un gioco linguistico ne quale praticamente qualunque cosa può essere usata per parlare di se, né è mai possibile rimuovere completamente il dubbio di stare effettivamente facendo proprio questo, in una generalizzata svolta masturbatoria dei mezzi espressivi.

21/04/15

Noia

A_ Mi annoio
B_ Anche io mi annoio
A_ Cosa si fa quando ci si annoia?
B_ Si guarda la tivù
A_ Per forza?
B_ No, non per forza. Però tutti quelli che conosco lo fanno
A_ E cosa guardano in tivù?
B_ Guardano i programmi
A_ E come sono i programmi?
B_ Ce ne sono di molte specie. In alcuni ci sono persone normali che parlano di cose che gli sono successe. In genere sono cose brutte, o imbarazzanti. In altri ci sono persone importanti che rispondono a delle domande sulle cose importanti che succedono. Le domande cambiano, ma le risposte sono sempre le stesse. Alcuni programmi fanno vedere delle riprese delle cose che succedono, e una voce fuori campo le spiega. Questi si chiamano: le notizie. Poi ci sono i film e i telefilm che non sono dei veri programmi, ma quasi.
A_Non ho capito
B_Cosa non hai capito?
A_Le notizie. Come fanno a far vedere tutto quello che succede, e lasciare anche spazio per gli altri programmi?
B_ Infatti ci sono canali che mandano solo notizie. Si chiamano: All news. Ma anche su quelli non fanno vedere tutto tutto. Ci sono persone che di mestiere scelgono cosa far vedere in tivù.
A_ C'è un'altra cosa che non ho capito
B_ Cosa?
A_ Quella cosa che le domande cambiano e le risposte sono sempre le stesse. Come è possibile?
B_ Ti ricordi che ti ho detto che quelli che rispondono sono persone importanti?
A_ Si
B_ Beh, le persone importanti che stanno in televisione a parlare di quello che succede sono dei politici. I politici sono di due tipi: quelli al governo, che hanno il compito di minimizzare le brutte notizie e prendersi il merito di quelle buone, e quelli all'opposizione, che devono attribuire più colpe possibili delle cose brutte che succesono ai primi, e promettere che con loro certe cose non succederebbero. Questo succede qualunque sia la notizia.
A_ E le notizie né buone né cattive?
B_ In che senso?
A_ Le cose che succedono non sempre sono buone o cattive. A volte succedono e basta, e bisogna decidere come reagire. E' la reazione che le rende buone o cattive.
B_ Quelle notizie non vengono scelte e quindi non si vedono. Non servono a niente, perché non si può dare la colpa a nessuno.
A_ E se sono cose importanti?
B_ Non esistono cose importanti. Tutte le cose sono solo una scusa per parlarne, e poi per parlare di chi ne ha parlato. E poi per parlare di chi a parlato di chi ha parlato. Più uno è intelligente, più livelli mette fra se e le cose. Anche: meno uno ha potere, più livelli mette fra se e le cose.
A_ Però quelli che hanno il potere dovranno pur decidere cosa fare.
B_ Perché?
A_ Beh, perché sono responsabili.
B_ Non se sono abbastanza bravi a sostenere il contrario. Non mi ascoltavi? E comunque nessuno ha più potere da un pezzo da queste parti. Decide tutto l'Europa, e quello che non decide l'Europa lo decide direttamente l'America.
A_ E allora se nessuno ha potere, perché parlano tanto?
B_ Perché è così che funziona: meno hai potere, più parli. Se esegui gli ordini, è ancora più essenziale che quello che fai sembri una tua idea. E se non stai facendo niente, è essenziale che sembri che stai facendo qualcosa. E' nell'arte della guerra di Sun Tzu, mi sembra.
A_ E cosa c'entra? Mica siamo in guerra.
B_ Noi no. Loro sono in guerra: ogni cosa è un pretesto del contendere.
A_ E le persone si divertono?
B_ Si. Possono scegliere un lato e fare il tifo. Oppure possono essere schifati dall'intero contesto, ma ciò non toglie che in fondo in fondo si sentono lusingati: alla fin fine si combatte per loro, ogni puttanata, ogni sbalorditivo colpo di coda, ogni strategia è un gesto di affetto.
A_ Davvero?
B_ No, ma le persone hanno tanto bisogno di affetto da crederci. E siccome per crederci bisogna essere assai ingenui, le persone lo diventano. Per un po' di amore si diventa anche cretini. Ci pensi che realtà orribile, sennò?
A_ E se la realtà fosse davvero così orribile?
B_ Allora discuterebbero di chi è la colpa.
A_ Giusto.
B_...
A_...
B_ Mi annoio
A_ Accendo la tivù?

16/04/15

Lucidità

Qualche tempo fa, pensavo molto in termini di superficie e profondità.
Rispetto al rapporto fra linguaggio e pensiero, ad esempio, pensavo al linguaggio come una superficie, una costellazione di rapporti fra simboli disposta su un piano, in piena vista. Al di sotto di essa, in profondità, invisibile, il pensiero: fra i due, una dinamica di emersioni ed affondamenti. Uno spostamento di superficie leggibile sempre come segno, sintomo di una trasformazione profonda. Il fatto che le trasformazioni di profondità avvenissero in questa immagine in uno spazio, mentre le proiezioni linguistiche su un piano era responsabile, credevo, di gran parte dei malintesi. Leggere qualcosa significava allora, in qualche modo, investigarne il senso, Col tempo, e con l'esercizio della proiezione linguistica del proprio pensiero, si arriva ad intuire qualcosa del pensiero che muoveva le parole.
Stesso discorso valeva al di fuori del linguaggio, per il rapporto fra coscienza ed inconscio: movimenti profondi che nell'affiorare e nell'emergere si rivelano essenzialmente ambigui per un meccanismo di proiezione che nel far affiorare riduce la dimensionalità dei processi.
Quindi, ad essere dotata di profondità e superficie era sia la struttura della coscienza individuale sia quella della coscienza collettiva.

Poi ho cominciato a pensare al concetto di crepa. Quella cosa che spacca lo spazio, fa emergere superfici ulteriori, perpendicolari a quella originaria, e nel contempo suddivide lo spazio prima continuo.
Quì le implicazioni metaforiche diventavano un po' più complesse: a prima vista quello che succede quando si forma una crepa è un moltiplicarsi delle superfici di rappresentazione, e al tempo stesso una interruzione di quel continuo spaziale che era luogo di circolazioni profonde e innominabili.

Secondo questa formula, l'esplicitare qualcosa poteva appartenere non soltanto alla dinamica dell'emersione - la normale dinamica che porta l'inconscio alla coscienza, l'implicito alla formulazione esplicita, il genotipo nel fenotipo - ma anche ad una più drammatica vicenda di rottura, nella quale una forma "perpendicolare" di linguaggio emerge a spese di una scissione della continuità dell'identità.
Mi sembrava di trovare esempi di questa dinamica negli ambiti più disparati: pensa al momento in cui una solidarietà profonda e priva di parole si rompe, e del carattere assolutamente paradossale dei discorsi che abitano quella frattura, ad esempio in termini di guerra civile, o di una famiglia che intorno al tavolo del cenone di capodanno affronta in modo esplicito un sottinteso rimasto tacitamente intoccabile per anni.
Mi sembrava chiaro che i motivi di una simile frattura dovessero ritrovarsi nello strato profondo, anche se non mi era molto chiaro come. Di contro, mi affascinava l'idea che un momento traumatico sviluppasse due diverse "superfici" di senso non a contatto, eliminando al contempo la possibilità anche di una superficie originariamente continua.

Un altro problema incidentalmente risolto, era quello della perdita di senso di alcuni discorsi, in seguito ad eventi traumatici - la poesia dopo auschwitz? L'opposizione politica destra-sinistra dopo il crollo del muro? - la crepa interrompe lo spazio organizzato del discorso precedente, ed inaugura una separazione netta, che viene significata all'interno di ciascuno dei discorsi separati residui appunto dal confine con un discorso "perpendicolare".
Mi chiedevo poi: cos'è un discorso perpendicolare? E realizzavo di essermi in parte già risposto.
Ecco quello che si dice essere un discorso profondo: la rivelazione di un trauma che apre una direzione inedita della significazione, una fessura lungo la quale si può far scorrere i simboli direttamente al cuore dell'identità.
E il riassorbimento dei discorsi profondi - che poi è il motivo per cui nessuna avanguardia artistica ha infine inflitto alla distribuzione del senso una ferita irrimediabile - era dovuto per me ad una tendenza insopprimibile al rimarginarsi delle crepe (costrastata da una ugualmente insopprimibile tendenza al formarsi di crepe).

Quello che non avevo considerato, mentre mi sembrava di aver considerato tutto, è quel particolare che è già - mio malgrado? - apparso due volte in queste righe.
Se la superficie coincide col senso, e la profondità con uno spazio di trasformazioni, dinamiche e processi energetici che eccedono la coscienza - e la logica aristotelica - allora il formarsi di una crepa significa proprio questo: l'indebolirsi dell'unità, dell'identità, dell'Io, del soggtto agente o narrante.
E allora arrivo a pensare che forse non è un caso che Difaul su queste pagine sia sempre quello che rimugina, che interroga amici e parenti. Non mi sorprende che il primo post esprimesse in un certo senso la vergogna di aprire un blog del genere, e che poi abbiano trovato spazio tutta una serie di riflessi e passioni malinconiche, fino a costituire quasi il tono emotivo generale. Anche la presa di distanza costituita da uno pseudonimo assume un senso particolare.

In fondo, tuttavia, lo avevamo detto: il guadagno è prospettico, il danno è psichico e profondo. E' un gioco masochista quello dell'osservatore di crepe. Oppure, forse, se si considera la dinamica sopra descritta come l'osservazione di un processo già in atto, nonostante tutto, bisognerà sentirsi realisti. Possiamo farlo, tuttavia, solo al prezzo di rinunciare del tutto alla pretesa di azione. Di fronte alla realtà che ci dissipa e ci fa letteralmente fessi (nel senso di fessura), non siamo che spettatori. In quel caso è la realtà ad essere tragica (sia nel senso delle possibilità espressive che in quello di: tremenda).

Il problema che non mi ero posto è esattamente questo: cosa possiamo attenderci da una operazione del genere? Un primo indizio, secondo un curioso andamento circolare, ci viene proprio dal fatto che un tale problema - in genere uno dei primi a venire affrontat - ha tanto ritardato a presentarsi in forma esplicita. L'indebolimento dell'identità si esplica innanzitutto e soprattutto in indebolimento della volontà. Una volta che la descrizione sia posta sul piano del rapporto fra la locuzione - o la produzione di senso tout court - e i processi di disgregamento e separazione dell'io, come si può calcolare il guadagno? Un simile calcolo prevede e presuppone il parametro dell'io.

P.S. Ed ecco spiegato in parte il rancore espresso in questi mesi per la società della comunicazione e l'idea del produrre messaggi per agire sull'interlocutore. Tale modello è in aperta collisione con quello che ho appena finito di tratteggiare proprio perché considere il linguaggio uno strumento, dando per scontato che la strumentazione agisce a partire da un centro della volontà e nei confronti di un'altra volontà, come canale, come trappola o come arma. L'uso interno del linguaggio - il ruolo e la prospettiva che il linguaggio può fornire sulla costruzione del soggetto - risulta immediatamente un rimosso di questo tipo di prospettiva. Le due non sono congruenti, né compossibili. L'abitudine a considerare il linguaggio in uno dei due modi fa apparire l'altro immediatamente assurdo.

08/04/15

internet come trascendenza

L'internet è una cosa meravigliosa. La possibilità aperta a chiunque di esprimere la propria personalità, le proprie opinioni, preferenze o addirittura idee tramite una vasta gamma di media.
Un laboratorio di connettività strategiche tanto versatile da convincere molti di trovasi di fronte ad una specie del tutto nuova di linguaggio, anzi a qualcosa che supera per complessità e potenzialità il limite stesso del linguaggio, travogendo la membrana che una volta separava questo dalla realtà.



Basta leggere un giornale, accendere la televisione o osservare per mezz'ora un teenager per rendersene conto: quello che succede su internet - o che, succedendo altrove, trova una sua risonanza sulla rete - è reale, ed anzi è l'unica realtà.
Non fraintendetemi: questo post non è una tirata neoluddista contro la perdita della "naturalità" dei nostri atteggiamenti pre-cibernetici, né una ripresa generica di argomenti contro la tecnologia basati sull'allarmismo e la perdita della nostra umanità. Neuromancer e Burning Chrome mi hanno insegnato appunto questo: l'orizzonte tecnico dell'evoluzione umana ci condurrà facilmente al punto di considerare l'involucro di carne, risultato di decine di migliaia di anni di adattamento, nient'altro che una obsoleta prigione fisica, un limite al movimento libero di concetti e simboli ai quali è legata la nostra vera identità.

Lo stesso concetto, risonando in gran parte della fantascienza contemporanea - da Matrix a Transcendence, e ancora in Lucy, per citare un film ormai classico e due abbastanza recenti - ci invita ad essere preso sul serio. Cosa significa, tuttavia, prendere sul serio il concetto del superamento dell'umano? Cosa significa riconoscere, come già Anders che L'uomo è antiquato?

Di certo non significa pensare che tutto cambierà: la sindrome del millennium bug ed i vari millenarismi possono essere facilmente scartati come meccanismi di difesa da chi abbia appena un po' di introspezione: al di là della funzione della catastrofe come escamotage narrativo efficace, una trasformazione radicale e repentina del modo di vita non è mai più che un'illusione ottica. Il cambiamento radicale repentino non è che il risultato, reso di colpo visibile, di uno stillicidio di metamorfosi locali. Per questo vi è sempre chi urla all'apocalisse e chi la precede cogliendo i segni.

Quello che voglio dirvi non è che l'essere umano è finito, o che dobbiamo prepararci al superamento del modo di vita corrente - anche se non sarebbe una cattiva idea.
Quello che voglio dirvi è che la trasformazione radicale delle condizioni di vita, di comunicazione, della costruzione della realtà sociale non apre un nuovo spazio, essa piuttosto avviene qui, nello spazio che già abitiamo.
La trasformazione della comunicazione, se in qualche modo rende obsoleta una parte della riflessione sul linguaggio e la comunicazione precedente, pone le condizioni non per un abbandono e un riposizionamento, ma per una specificazione ed elaborazione delle riflessioni precedenti. Messa giù molto semplice: sono migliaia di anni che gli uomini usano simboli, e il fatto che una volta fossero incisi su un muro di pietra e ora trasmessi lungo una fibra ottica costituisce una differenza periferica rispetto alle funzioni di produzione ed uso dei simboli.

"L'uomo è antiquato" non significa che, ad esempio, i nativi digitali non sono più da considerarsi umani tradizionali, perché la tecnica viene loro "naturale". Significa invece che l'essere umano - inteso non come sostanza specifica, ma come spettro di possibilità - è oggi nelle condizioni di non poter più dare per scontate le proprie funzioni simboliche ed il ruolo che esse assumono nella sua economia esistenziale.
Non è un terreno nuovo, è una crepa nel terreno vecchio, un'esplosione di possibilità tanto trasformative quanto patologiche. Il passaggio, simile al vecchio meccanismo dell'iniziazione, prevede la torsione di caratteristiche che avevamo scambiato per invarianti umane lungo assi finora ineffabili: l'opportunità di una comprensione più profonda di cosa significa "umano", e al tempo stesso la necessità del dolore ed il rischio dell'autodistruzione. (Su un piano più filosofico, si potrebbe chiedersi se di fronte a tali metamorfosi gli assi che consentono una coerenza nella trasformazione sono da trovare o da inventare. Ma rimanderemo la questione, per il momento.)

Prendi questo blog: io stesso non sono sicuro se sia più vicino alla situazione in cui parlo ai miei amici delle cose che mi interessano, ad uno spazio pubblico nel quale intervengo su problemi della collettività, o una sorta di raccolta privata nella quale vi do occasione di sbirciare. Non so se sono frivolo o serio, e nemmeno so quali forme di dialogo sono possibili a partire da qui. Probabilmente resterei sorpreso da qualunque interazione, e a volte mi accorgo di disorientare me stesso.
Tuttavia, nonostante tutta questa vaghezza ed apertura la verità è che, ancora più di quanto non sia il caso per la letteratura tradizionale, puoi leggere queste pagine come ti pare, ma proprio per questo finirai per leggerle secondo una schema al quale sei abituato (e io potrei scrivere per chiunque, in qualunque modo, non ho limiti né editori, ma finisco per scrivere nel modo in cui so, di ciò che mi interessa).

A tutti coloro che in modo non ironico intendono l'internet come una trasformazione della comunicazione umana, basti ricordare quanto sia difficile individuare nella serie di interazioni che sulla rete si producono forme realmente innovative di uso del linguaggio, e formazione di reti. Nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di replicare nello spazio virtuale una forma di connessione interpersonale e comunicazione già collaudata, nella quale ci si trova a proprio agio. Più ci si allontana dall'imitazione della vita vera, meno internet funziona (chiaramente, se per "funziona" si intende che contribuisce allo sviluppo organico delle piene potenzialità umane. Se invece si intende che contribuisce alla circolazione di merci, o allo sviluppo di un controllo sempre più capillare della realtà sociale, allora vale il contrario.)

Lo "specialista della comunicazione su internet", in conclusione, è una figura parassitaria, lontana dall'essenziale, che come l'antico sofista o il prete difende l'indipendenza del mezzo da ciò che ci passa attraverso. Il suo formalismo riflette quello della società tutta: da ogni parte, giornalisti e politici scuotono le proprie gabbie di carne, insofferenti nei confronti dei propri corpi come di quelli altrui, desiderosi solo di librarsi infine, pura luce, pura immagine, in una esaltazione emotiva disincarnata, avvolti dal sentiment del web, in un coro di tweet angelici.