20/03/15

simboli e potere: un flusso di coscienza

Avvertenza: questo è un post confuso, poco lucido, e probabilmente c'è un modo più semplice ed elegante di trattare le stesse cose. Potete però leggerlo comunque, se vi piacciono le idee arruffate.



L'altro giorno, con un gruppo di amici eravamo in un bar, e si parlava delle solite cose: il potere, la droga, guerra nucleare, la musica hardcore, il soft power americano, l'estetica sovietica, i limiti di legittimità del genocidio, la droga, l'Islam.



a un certo punto, durante un passaggio in cui si parlava di come fare la rivoluzione (uno dei nostri must) uno di noi, che chiameremo Y, sbotta: "Il punk è morto, le subculture sono defunte, la società dello spettacolo ha vinto. Non ci sono più alternative? Dobbiamo rassegnarci a vivere come individui, in una società di relazioni tiepide e tutte uguali? Dobbiamo davvero avere come orizzonte esistenziale una pagina con il bordino blu?
Tutti annuiscono gravemente, poi un'altra, che chiameremo X ,risponde: "Mica è colpa di Zuckemberg, però. La gente era così anche prima, solo che non si vedeva. E alla fine rispetto agli anni settanta non c'è stato tutto questo declino: all'epoca si pensava di fare la rivoluzione e adesso non si pensa più. In concreto è solo un aumento di consapevolezza che ci ha fatto capire che l'essere umano è sempre stato un animale domestico, e sperare che possa essere qualcosa di diverso da quello che è è ridicolo. Gli tiri un osso e sbava: puro Pavlov, ne più ne meno"
Un altra volta, tutti annuiscono.



Y: Troppo facile così, però. "La gente è una merda, è sempre stata una merda e basta..." come se l'homo sapiens sapiens non si fosse già trasformato innumerevoli volte dall'inizio della storia. Invece io dico che la melma attuale, tutti che sorridono per vendere meglio che si può le proprie potenzialità al migliore offerente perché lui possa sprecarle, invece di realizzarsi, tutto questo è una responsabilità personale di ciascuno. Alla fine il biglietto del concerto del cantante neomelodico, o dell'emocore per prepuberi, o del rappuso criminale che passa in tre frasi da "rivoluzione!" a "vojo fa i sordi" costa sei o dieci volte quanto un capolavoro della letteratura cosiddetta "borghese". Non puoi sputtanare tutto in una motociclettona cromata e in ketamina e poi venire a piangere il declino della civiltà. Studia e combatti, invece.
X: Hai ragione: la società si trasforma. Però si trasforma sempre secondo la linea di minima resistenza. Quando cambiano le condizioni cambia di riflesso la gamma di interazioni possibili. Se nasci alla periferia di Baghdad puoi leggere quanto che ti pare: non ne esci. Il potere non ti obbliga a fare nulla: rende alcune scelte costose, ed altre convenienti. Però se una scelta è costosa, statisticamente la quantità di persone che la realizzano è trascurabile. Per essere terra-terra: quelli della motociclettona e della ketamina possono avere più soldi di te, ma non hanno avuto tempo né stimoli per imparare ad apprezzare Focault. In concreto: come lo guarderesti un camionista che entrasse nella biblioteca del tuo piccolo dipartimento di filosofia? Vuoi dargli la colpa di ciò che è? E' come dare la colpa alla terra durante una frana: poteva non aprirsi.

La discussione continua ancora per un po', scaldandosi fino a che qualcuno ordina ancora da bere, e ben presto riprendiamo a parlare di quanto fanno ridere i cinesi con i risvoltini.
Io, però, la sera non riesco a dormire, e quando infine mi addormento sogno Giancarlo Magalli che, dietro la cattedra di Vicennes parla di buchi neri, poi lancia la pubblicità, e fa spazio a Joe Strummer, che steso su un divano estendibile dice: "Chiamate subito. Per le prime venti telefonate, un set di pentole omaggio".



Svegliandomi ci metto un po' a riprendere la calma, e infine ritorno alla mia solita routine di frenetica nullafacenza. In qualche angolino riposto del cervello tuttavia la conversazione continua a fermentare, il trauma si elabora.
Io e i miei amici non siamo un caso isolato: è pratica comune intorno a tavoli ingombri di bicchieri di birra, amari, pastis o altre bevande alcoliche - in alcuni casi, persino te verde o alla mariujuana - e parlano di problemi. E con il peggiorare della situazione, sembra che la cosa aumenti: forse un'inconscia paura di essere lasciati soli, lasciati indietro ci spinge a premere gli uni sugli altri.
Le conversazioni sono, quasi senza eccezioni, insoddisfacenti, labirintiche, prendono percorsi tortuosi e trovano a fatica un centro di gravità. Per un po' ho pensato: sono solo chiacchiere. Chiacchiere di giovani sfaccendati e abbastanza vanitosi, pura funzione fàtica: stare con gli altri e ribadire la connessione sociale tramite il rito del dire qualcosa e dell'ascoltarsi a vicenda. Un modo per non sentirsi soli, e alla fine che si parli del calcio, del papa o dell'Internazionale Situazionista cambia poco.
Sicuramente c'è del vero, ma non è tutto. La seconda funzione di conversazioni come quella dell'altra sera è sfogarsi, dare la stura alla propria insofferenza in una sorta di seduta generalizzata di autocoscienza. Man mano che la situazione complessiva peggiora la dignità composta dei padri cede e mostra la corda, un circolo di amici stretti diventa il luogo nel quale il dolore normale dell'esistere trova ascolto, accoglimento. Quindi: ci si lamenta e si chiacchiera. Tutto normale, no? Lo si è fatto dall'inizio dei tempi. Eppure c'è qualcosa, un tono leggermente più isterico, un senso diffuso di insoddisfazione. Come se ci sentissimo di troppo, o in imbarazzo per qualche motivo.
E' questo, realizzo, che accomuna le mia immagini oniriche: simboli che servivano ad organizzare un immaginario, persino talvolta ad immaginare una vita trasformata dall'arte, piena di estatica libertà ora scivolano sulla superficie liscia. Per quanto ci sforziamo, non riusciamo più a trovare un posto per i nostri corpi e desideri nella bidimensionale lucidità dello schermo, che cattura l'attenzione ma non consola, e il motivo di ciò ci sfugge.



Una volta, i miei amici erano tutto tranne che confusi. Sapevano in cosa credere, forse lo sapevano fin troppo, avevano un orizzonte simbolico solido ed inossidabile. Sapevano chi era colpevole, e perché avrebbe dovuto pagarla, cosa si sarebbe dovuto fare e come. Ora, quando parliamo dei nostri argomenti soliti, oscilliamo più o meno consapevolmente fra atteggiamenti complementari ed a volte decisamente opposti.
I simboli che determinavano la decifrabilità del mondo, le distinzioni, stanno diventando sempre più difficili da comprendere. Eppure, allo stesso tempo quegli stessi simboli diventano sempre più potenti. La perdita di attrito, la coerenza svanita fra l'immaginario e l'esistenza permette un'esaltazione del movimento. Come per il Go, il gioco inizia esattamente dove finisce la pratica divinatoria.
Forse, come ha detto qualcuno, non si parla ma si è parlati: fatto sta che i miei amici sono parlati da una lingua che non conoscono più, si trovano all'improvviso a non capirsi da se.

Boltanski forse la chiamerebbe la plasticità dello spirito del capitalismo, capace di adattarsi alle critiche inglobandole, qualche situazionista la chiamerebbe la dinamica dello spettacolare diffuso, che sistematicamente ribalta la scena ed intorbida le acque.
A me e voi tuttavia l'evoluzione del capitalismo e le sue forme interessano fino ad un certo punto, e ci interessa invece capire cosa ci succede e come uscirne: contrariamente al credo comune, la prima serie di domande non costituisce una necessaria premessa alla seconda, ed anzi il più delle volte si rivela uno spreco solipsistico di energie preziose, uno spostamento all'esterno che individua altrove il senso di qualcosa che succede qui ed ora, l'individuazione di un terreno specifico sul quale porre una domanda che invece tende a coinvolgere la totalità della condizione esistenziale e psicologica.
Soprattutto, dobbiamo considerare che non ci troviamo nella posizione dalla quale scrivevano - o immaginavano di scrivere - Debord o Boltanski. Non stiamo costruendo apparati e strumentari concettuali per affrontare la realtà. A malapena resistiamo invece al tentativo dell'abulia totale, e il simbolico è il pantano nel quale trasciniamo i piedi. Le nostre posizioni sono molto arretrate e instabili.


Il paradosso, dunque, per come infine appare:
Il simbolico è confuso, strategicamente occupato, colonizzato. I concetti di censura e blasfemia sono resi marginali nell'armamentario del potere, sostituiti dal marketing e dalla gestione del frame.
Allo stesso tempo, la virtualità crescente dell'economia - che però esprime attraverso dinamiche esplicite di inclusione ed esclusione, dolore e repressione la sua reale brutalità - fa si che il simbolico sia di fatto più reale dei corpi.
Attraverso l'iperconnettività tecnica si realizza questo lontano nipote del "dividi ed impera", il monopolio della connessione fra gli individui. La gestione tecnica permette manipolazioni inedite del codice adoperato: non direttamente, come vorrebbe un'idea ingenua (si è venduto/l'hanno comprato), ma attraverso la determinazione del contesto comunicativo. Diventa possibile manipolare così il codice e le interazioni che lo determinano e lo trasformano: brutalmente, vendere agli uni l'affetto e l'attenzione degli altri, e mettere ad interesse l'invidia. Capitalizzare sui processi di formazione ed espressione del soggetto.
A questo si riconduce la morte della tensione sub e contro-culturale. Il punto delle subculture è una evoluzione duplice verso un codice simbolico alternativo al mainstream e verso una forma di vita altrettanto alternativa o deviante. La cosa può svilupparsi in entrambe le direzioni: i rude boys giamaicani inventano un modo per rendere esplicita e riconoscibile una forma di vita deviante. I Punk inglesi esplorano un'estetica esuberante per trasformare attraverso essa la propria forma di vita: la cresta e la svastica trasformano di fatto la relazione con i genitori, gli amici ed i passanti, magari in modo imprevedibile ma infallibilmente.



 Il vampirismo delle pratiche simboliche inghiotte il lato simbolico della subcultura e lo rende disponibile come sistema di significati compatibili con le forme di vita esistenti. Come effetto collaterale, priva le forme di vita devianti di codici simbolici attraverso i quali articolare e riconoscere la propria originalità.
I non-luoghi della comunicazione, come Facebook, sono l'ambiente perfetto di questo vampirismo: volatilizzandosi, i codici non significano niente e si risemantizzano all'infinito. Voilà: industriali con la cresta e bimbi ricchi e bianchi col new era.

Dibattere se la colpa sia dell'individuo o del sistema è futile: ciò che è sicuro è che certi cambiamenti ambientali selezionano le scelte possibili, e se la selezione si restringe lo chiamiamo potere. Ma se le possibilità di scelta si espandono come lo chiameremo? Quella descritta sopra è una esplosione di possibilità di scelta nell'uso dei simboli per l'autorappresentazione, una esplosione di possibilità mimetiche, una espansione che può essere altrettanto e più efficace nel destrutturare un codice simbolico di una proibizione o rimozione.
Puoi dire, semplificando, che "facebook fa male, appiattisce le cose", ma il problema è più profondo, e ad oggi gli strumenti concettuali per affrontare gli effetti collaterali di quella che si presenta retoricamente come una enorme possibilità emancipativa latitano.
In conclusione, una nota di speranza: la prossima volta che incontra i tuoi amici, abbracciali. La relazione che hai con loro è flessibile, permeabile, e può sopperire o compensare tutta una serie di crudeli manipolazioni emotive e cerebrali, e in parte anche la perdita di senso del mondo intorno.




P.S.
Dal punto di vista della teoria dei corpi separati, quello descritto in questo post è un tema del tutto preliminare: la stessa definizione di un corpo separato richiede un codice simbolico locale e non può funzionare senza.

05/03/15

Preconcetti, pregiudizi e reazioni filosofiche allo spleen

Avvertenza: Oggi, per alleggerire il discorso dopo la macchinosità di Militansia, volevo scrivere una cosa leggera, autobiografica. Inutile dire che non ci sono riuscito: ho toccato inavvertitamente un nervo scoperto e quello che segue è il risultato. Buona lettura.

Coloro che non sanno nulla di filosofia, curiosamente, tendono ad avere riguardo ad essa atteggiamenti opposti. Da un lato vi sono coloro che considerano la filosofia un passatempo, un'attività umana legata al “pensiero” o alla “riflessione”, affine ai sogni ad occhi aperti o alla scrittura di romanzi. Dall'altro, vi sono coloro che la considerano una disciplina bizantina, astrusa, una forma di masturbazione cerebrale totalmente incompatibile con la vita reale.
I primi ed i secondi hanno in comune il fatto di non riuscire a concepirla come disciplina professionale, e tuttavia tale difficoltà deriva nei due casi da considerazioni opposte: i primi non vedono come un passatempo gradevole ma tutto sommato ozioso possa diventare un lavoro, i secondi, anche se magari non mancano di osservare la fatica del lavoro filosofico, non riescono a vederne l'utilità e dunque denunciano la fatica sprecata del filosofo.
Il risultato, che chiunque abbia frequentato una facoltà letteraria conosce, è uno sguardo di corrucciato sdegno, oppure di sorridente compassione che accompagna una domanda: “ma cosa intendi fare, dopo?”, o anche “ma a che serve la filosofia”, a volte accompagnata da un sognante “comunque è bella. Io volevo farla, prima di decidere per Optometria”.



Alcuni giovani filosofi rispondono a tali domande sperticandosi in lodi della millenaria disciplina di cui sono eredi, altri condannano il mercato del lavoro che li esclude, alcuni esposti da più tempo alla serie dei microtraumi prodotti dalla ripetizione dell'episodio con parenti ed amici si prendono la testa fra le mani e scoppiano a piangere. Torneremo poi sulla condizione psicologica di questi poveretti da cui infondo non dipendono le sorti del pianeta.
Ciò che ci interessa, infatti, è capire quali sono i presupposti di una tale disposizione di pregiudizi. Dopotutto abbiamo imparato da Gadamer che il pregiudizio è un presupposto fondamentale di ogni sforzo interpretativo, e se un giorno l'opinione mainstream sugli studi filosofici dovesse cambiare, ciò si verificherebbe per una mutazione dei presupposti retorici e strategici che ad ora impediscono tale cambiamento. Andiamo schematicamente e usando degli esempi per rendere il tutto più scorrevole.

Gadamer

L'utilità innanzitutto

Spesso le domande ingenue si rivolgono all'utilità: a cosa serve la filosofia? che cosa ci si può fare? Ogni tentativo di risposta positiva a tali domande risulta vano: la filosofia non è utile, né potrà mai esserlo, per i motivi che andiamo ad illustrare.
Esempi: Il demonietto di Socrate descritto nell'apologia è una “voce interiore che, ogni volta che si fa sentire, sempre mi dissuade da qualcosa che sto per compiere, e non mi fa mai proposte”. Di conseguenza Socrate stesso se ne va in giro per Atene replicando il comportamento del suo demone: incontra una serie di sapienti, nominalmente esperti nella gestione di qualcosa, e gli fa domande fino a che questi non si rendono conto di non sapere più di cosa si sta parlando. L'ambizione di Socrate è conciliare il suo non sapere di sapere con il detto della Pizia, che a nome di Apollo lo designa l'uomo più saggio di Atene. Pensa di avercela fatta – al punto che sostiene di meritarsi un posto nel Pritaneo – e invece lo uccidono con la cicuta. Addirittura, sventa un piano per salvarlo convincendo coloro che ci provano che non ne vale la pena, qualificandosi così come il peggior escapista della storia.

Dilettante...

Che cosa c'è di utile in tutto questo? Assolutamente nulla. Secondo la nozione contemporanea di utilità, che va a braccetto con l'efficacia nel raggiungimento di un obiettivo dichiarato (spesso fare soldi), Socrate è il vero antieroe. Non nel senso che è un eroe – determinato ed efficace, come Sam Spade o Snake Plisskeen – reso atipico da una morale vacillante e da una certa cupezza, ma nel senso che non ha alcun piano, ed anzi passa il suo tempo a rilevare le contraddizioni delle posizioni altrui.

Il filosofo, se dobbiamo dare retta all'esempio socratico, non è solo inutile: è controproducente. La posizione della disamina teorica implica una presa di distanza radicale dall'oggetto, una spinta in direzione contraria a quella della vita vivente – un noto nazista diceva persino che la filosofia si riduce ad un prepararsi alla morte – che mette in questione il problema stesso dell'utilità. La maggior parte dei filosofi – al di là della botta di fortuna di Talete con le olive – vive in maniera ritirata e infelice e guadagna pochissimo.


In secondo luogo, la questione del piacere.

Sfatiamo un mito: i sogni ad occhi aperti non hanno nulla a che fare con la filosofia. La filosofia, anzi, nasce contro le opinioni, e rimane in generale assai diffidente rispetto al mito e alla rappresentazione. La filosofia è una disciplina, e una disciplina è una forma che delimita la legittimità di alcune operazioni intellettuali e l'illegittimità di altre.
E allora, da dove deriva l'equivoco? Dal fatto che la filosofia come disciplina eredita proprio da linguaggi eterogenei – dal mito, dalla religione, dalla matematica, dalla grammatica – i temi e gli strumenti che prova ad omogeneizzare. Identificandola con tali contenuti o strumenti, prescindendo dall'aspirazione alla connessione organica di questi in un orizzonte concettuale, si può dire che vi è della filosofia (implicita?) nella poesia, nei romanzi, nei sogni ad occhi aperti, nella teoria della relatività e nella politica economica del governo. Il fatto che diverse prospettive filosofiche che si contendano la preminenza in ogni epoca sulla base di una maggiore efficacia nel costruire un orizzonte di senso coerente evidenzia nello stesso tempo la pluralità (forse irriducibile) degli approcci e il fatto che ognuno di essi aspiri ad una validità generale capace di armonizzare le razionalità locali del pensiero umano.



Una tale spiegazione tuttavia non basta a controbattere il presupposto che ci interessa: chi considera la filosofia un passatempo edonistico non lo fa per aver osservato che i filosofi siano dei gaudenti – perlopiù non lo sono – ma per l'implicita convinzione che in questa epoca dell'umanità una omogeneizzazione filosofica sia ormai inutile e comunque fuori portata (e quindi che il piacere personale sia l'unico motivo valido per applicarvisi). Tale implicita convinzione può derivare da tre diversi presupposti para o pseudo-filosofici.
  1. che la realtà, ormai occupata dalla tecnica, sia pressocché interamente artificiale. Vi è già una razionalità dominante, omogenea, e si tratta del sapere economico-ingegneristico relativo appunto a come funzionano le cose e le persone (l'ingegneria si occupa delle cose, l'economia delle persone). Il tentativo di omogeneizzazione filosofico appare da questo punto di vista futile ed obsoleto.
  2. Che la realtà, ormai infinitamente complessa, non si lasci più comprendere. L'abitante di questo secolo deve adattarsi all'assurdità del mondo, e imparare a muoversi in tale assurdità in modo efficiente, rimediando con la flessibilità personale, lavorativa e psicologica alle contraddizioni che incontra. Il tentativo di omogeneizzazione razionale appare da questo punto di vista un delirio di megalomania.
  3. Che ognuno abbia diritto a pensarla come gli pare, vale a dire che ognuno abbia il diritto-dovere di costruire come gli pare la propria sfera valoriale e la razionalità delle proprie azioni. La valutazione si darà a posteriori (a seconda del successo di ciascuno nel raggiungere le proprie ambizioni), in base a criteri di efficacia, ma mai di merito. Da questo punto di vista la filosofia appare come un concentrato di invadenza e presunzione.

Questi motivi, benché divergenti, sono collegati: ad esempio l'(1) ed il (3) dipendono l'uno dall'altro: una razionalità economico-ingegneristica esterna fornisce le condizioni per la coesistenza di individui in modo funzionale e tutto sommato stabile anche a prescindere dalla divergenza dei loro modi di pensare. In altre parole: non fa alcuna differenza che il tipo che lavora nel cubicolo a fianco sia un nazista o un cinico, un epicureo o un metodista. L'organizzazione attenta del lavoro e la presenza di codici linguistici e comportamentali specifici e neutri vi permetterà di collaborare indipendentemente dalla condivisione di un orizzonte di senso. La (2) invece rappresenta una posizione di maggiore sofferenza: l'esigenza all'omogeneizzazione è ancora presente, e tuttavia non più possibile.


"Dovevamo ricordarci di sostituire i pezzi, man mano"


Alla luce di queste considerazioni, possiamo dunque esaminare nuovamente la gamma di reazioni comuni alla fatidica domanda.
L'appellarsi ad una comunità scientifica ricca e millenaria, alle grandi scoperte filosofiche del passato serve a poco: per rispondere adeguatamente al vero punto problematico della questione bisognerebbe poter dimostrare che tali scoperte filosofiche sono oggi utili, e questa e tutta un'altra questione.
Più onesto, benché rancoroso, è chi se la prende con il mercato del lavoro et similia. Almeno, dimostrando l'originale presunzione del filosofo si assume il compito di combattere la falsa razionalità in nome di una razionalità autentica, chiarisce la specifica forma di sofferenza della filosofia nella contemporaneità. Tuttavia, si deve osservare che fino a che il discorso rimane critico, non ha niente da opporre alla posizione implicita (2), che designa ogni fedeltà irriducibile all'intento filosofico come una forma di megalomania delirante.
Chi si mette a piangere possiamo anche capirlo, ma rimane comunque ridicolo (e una pessima pubblicità per la categoria. Smettila, codardo).



In sostanza, l'unica risposta possibile a chi domanda “perché studi filosofia”? È “perché tu no?”.
L'esigenza filosofica è incomprensibile ed ingiustificabile, se non come un'attività – forse l'unica – propriamente umana, non nel senso che è compiuta solo dagli uomini ma nel senso che è necessaria a renderci tali. Non si arriva alla dignità umana se non sviluppando l'esigenza di un orizzonte di senso non accettato acriticamente, sedimento quasi-geologico di cartoni animati, pubblicità, serie televisive, romanzi, seminari di self-managing et similia, ma messo in questione sistematicamente e dunque assunto come responsabilità esistenziale.
Non è un'attività strumentale né piacevole, ma l'abitudine a concludere da ciò che si tratti di una attività priva di senso dimostra i danno enormi che la latitanza della filosofia ha già compiuto.




Al giovane filosofo piangente consegniamo dunque il risultato di queste poche riflessioni:

  1. la cosa che stai cercando di fare è incompatibile con la maggior parte delle forme di vita che ti circondano. Socrate almeno aveva un gancio a Delfi (e più di uno ad Atene), tu probabilmente non sei nessuno. Devi venire a patti con questa realtà come prima cosa, e ricordarla anche quando sei a lezione o fra altri filosofi. Non illuderti nemmeno per un attimo che l'attività che hai scelto sia un “mestiere come tanti”, e valuta seriamente se hai voglia di sopportare sulla tua pelle una contraddizione acutissima e più vecchia di te.
  2. Omogeneizzazione della razionalità significa che, a differenza degli scienziati, non puoi accontentarti di lavorare con serietà e cura alle tue cose per poi scrivere i risultati e consegnarli alla razionalità di una pratica scientifica collettiva ed organizzata. Il concetto di “comunità scientifica” in filosofia non si applica, se non con una serie di corollari che ne destrutturano il senso (scuole, tendenze, raggruppamenti in polemica fra loro). Il concetto di totalità invece è irrinunciabile, quindi qualunque cosa tu faccia si riferisce ad una strategia complessiva di omogenizzazione (che tu te ne renda conto o no, aggiungerei). Non ti illudere nemmeno per un momento di studiare filosofia “per te”. Man mano che vai avanti, il problema sempre più acuto sarà trovare interlocutori.
  3. Vivi su una crepa bella grossa. I millenni di storia della filosofia garantiscono una certa inerzia, ma chi può dire che non stia per esaurirsi? Numerosi filosofi col tempo hanno iniziato a coltivare le convinzioni (1) e (3) che dicevamo prima, o anche la convinzione (2), e le hanno splendidamente argomentate. Si suddividono fra coloro che ancora pensano che la filosofia trasformata in qualcos'altro sia ancora possibile (ipocriti o opportunisti) o che essa sia definitivamente condannata (delusi e perlopiù malinconici, ma per lo meno onesti). Se intendi continuare, devi evitare assolutamente di cadere in uno di questi trabocchetti che ti renderebbero miserabile.
  4. Nietzsche scrisse che ogni vero filosofo combatte il proprio tempo. Le epoche nelle quali la funzione sociale, politica e spirituale della filosofia sembra decadere, sono in genere quelle in cui è più acuto il bisogno di pensiero filosofico. Oggi, rispetto ad un'epoca d'oro passata e a dispetto dell'apparente futilità della filosofia, il lavoro da portare a termine è mastodontico.
  5. Ricorda a tua zia che Marchionne ha studiato filosofia: in genere la cosa fa colpo sulle zie. (da evitare assolutamente se la zia ha lavorato o lavora in FIAT)