19/02/15

Militansia: una teoria dei corpi separati.

Esiste una teoria secondo la quale la caratteristica umana fondamentale è l'incompletezza, la necessità di colmare un vuoto, di compensare una mancanza. Sarebbe tale necessità a motivare lo sviluppo di strumenti cognitivi inediti, capaci di adattamento creativo e molto rapido alle condizioni ambientali. Contrariamente a quanto sostenuto per millenni, l'uomo non è il più perfetto e compiuto degli esseri animali, quello nel quale all'istinto si collega la consapevolezza e che dunque supera l'animalità per aprire un nuovo (ultimo?) capitolo nella storia della vita. Piuttosto, l'essere umano è il frutto di una nascita prematura, di una formazione incompleta. Laddove gli altri animali nascono formati, completi, pronti alla vita (benché a tratti debolucci), i piccoli umani nascono allo stato poco più che fetale, indeterminati ed indifesi.

Le caratteristiche distintive della specie umana seguono a cascata: la necessità di prendersi cura dei piccoli, indifesi ed immaturi per anni, costruendo un sistema sociale complesso. L'adattabilità estrema di tali piccoli, il cui sistema cerebrale si forma "all'aperto", assorbendo le caratteristiche del contesto eccetera. 
La coscienza non cade dall'alto, quanto piuttosto è il luogo in cui avviene la selezione a partire da una serie di possibilità che gli animali non hanno.
Gli esseri umani, fra gli animali, infatti, sono gli unici a disporre di un margine di manovra rispetto alle dinamiche fondamentali della loro vita associata, a potersi proporre di modificarne gli equilibri, a porsi coscientemente il problema di cambiamenti nelle condizioni di esistenza e delle possibili risposte comportamentali. (Non posso escludere che altri animali amministrino il loro margine di adattabilità all'ambiente in qualche modo, ma non ho mai incontrato un piccione con opinioni politiche, a parte una spiccata iconoclastia)

Gli esseri umani, dunque, si pongono il problema del loro essere al mondo. In particolare, si pongono il problema del loro essere al mondo come collettività. I termini di un tale problema sono molto cambiati nel corso dei millenni: è probabile che in epoche lontane una riflessione sulla condotta adeguata e sull'equilibrio sociale dovesse necessariamente assumere una formulazione religiosa, e che in seguito le categorie si siano modificate lentamente, senza passaggi netti e con numerosi reflussi, spaccature, eccetera. I termini del problema, tuttavia, hanno raggiunto lentamente una certa maturità.

L'idea di Militanza è abbastanza recente, e allo stesso tempo il frutto di una tradizione antichissima. L'idea che un gruppo di individui agisca sulla società - intesa come totalità - per cercare di modificarne gli equilibri, e che per farlo proceda alla preliminare definizione di un funzionamento interno al gruppo differente e distinto dal funzionamento complessivo della società è infatti tanto antico da affondare nella notte delle prime memorie mitiche dell'infanzia dell'uomo.
Ogni casta sacerdotale, ogni clero, ogni confraternita, ogni società segreta, ogni raggruppamento iniziatico, ogni banda armata, ogni setta eretica, ogni intellighenzia, ogni esercito, ogni massoneria, ogni accademia, ogni partito ha funzionato e funziona secondo la stessa logica. Si può dire che la storia dell'elaborazione cosciente del modo di vita umano coincide con la storia dei corpi separati che, nell'intento di governare, sabotare o trasformare il funzionamento sociale generale, hanno messo a tema tale modo di vita.

Quando diciamo che ognuna di questi corpi separati funziona ed ha funzionato "secondo la stessa logica" non ci riferiamo ai termini del problema, al lessico che permette la descrizione della società o degli esseri umani, o al contenuto delle azioni, caratteristiche che continuano ad evolversi e regredire lungo tutta la storia umana. Intendiamo dire che vi sono una serie di presupposti costanti, che invece formano il sostrato di tali modifiche. In se, tali presupposti non determinano la realtà fino in fondo: si deve pensarli come situazioni a partire dalle quali si apre uno spettro definito (ma comunque ampio) di possibilità. Nella trattazione seguente, tuttavia, pur aspirando a conclusioni generali, ci atterremo perlopiù ad esempi recenti, volendo soprattutto capire che cosa si intende oggi per militanza, e quale orizzonte problematico è connesso al termine e alla sfera di significati che esso chiama in questione.

Il primo passaggio necessario alla nostra analisi è di carattere genetico: bisogna capire a partire da quale serie di esigenze corpi separati emergono in seno alla società. Una risposta che in parte abbiamo già suggerito è che non si può mettere a tema qualcosa senza esserne separati. La dialettica soggetto - oggetto, benché si sia arrivati talvolta ad ontologizzarla malamente, significa appunto questo: la costituzione di un oggetto in quanto tale presuppone la costituzione di un soggetto osservante. Il soggetto non può fare parte del suo oggetto mentre lo considera come oggetto. Le molte difficoltà filosofiche a rendere conto dell'uso del pronome io, ad esempio, vengono dal fatto che posso riferirmi a me stesso (considerandomi tutto intero, gambe, braccia, testa eccetera) mentre guardo un paesaggio o abbraccio un altro individuo, ma nel momento in cui concentro l'attenzione sulla mia mano, e dico che io sollevo la mia mano, sembra che si parli di un io che possiede e dispone di una mano senza coincidere con essa.
La traduzione nelle pratiche di questa situazione di specularità dei processi di oggettivazione e soggettivazione (e l'impressione è che i filosofi siano arrivati a parlare di processi proprio per l'impossibilità di risolvere il problema soggetto - oggetto al di fuori del contesto pragmatico nel quale di volta in volta si propone) è molteplice: quando si scrive un saggio, la prima cosa che l'autore fa è rendere conto della sua posizione, dei metodi che usa, della comunità scientifica che lo legittima (lo fa con i ringraziamenti, l'introduzione, la bibliografia, che risultano da molti punti di vista le parti più importanti di una pubblicazione); quando si testimonia in tribunale, si giura ritualmente di dire la verità, costituendosi come soggetto credibile (minare questa credibilità è il mestiere dell'avvocato: se il soggetto scompare come soggetto credibile, l'oggetto ovvero la testimonianza scompare come oggetto creduto).

Ci sono ragioni profonde per le quali chi critica la società deve necessariamente farlo in nome di una società altra: in nome della società passata (critica conservatrice dei tempi moderni), in nome della società da venire (praticamente tutta la critica progressista e di sinistra), in nome di una società diversa, possibile o realmente costituita in un luogo lontano. A dimostrare che si tratta di una costante, basta osservare come nei casi in cui una società altra a partire dalla quale criticare questa società non sia pensabile nelle immediate vicinanze del reale il riflesso immediato di coloro che vogliono esercitare una critica sia costruire una utopia.

Benché la militanza sia un frutto della critica alla società come essa si presenta - dal momento che è necessaria una tale critica a sostenere l'istanza del cambiamento da produrre nella società stessa - la critica da sola non basta a sostenere un reale sforzo organizzato e collettivo di trasformazione della realtà. Con ciò non voglio dire, come è ormai vulgata nei mezzi d'informazione, che "non basta la critica senza la proposta". Come abbiamo visto, ciascuno di quelli che critica presenta, almeno implicitamente una proposta. Tale proposta è costituita dalla realtà alternativa che si contrappone a questa: ogni critica alla società perché ingiusta si riferisce ad una società giusta, ogni critica alla società perché troppo complessa si riferisce ad una società semplice e così via.
Il problema concreto dell'organizzazione di un corpo separato non sta nella proposta, nell'ideale, nella società giusta da contrapporre a quella ingiusta: lo dimostra il fatto che legislatori eccellenti di alternative complesse ed intelligenti alla realtà sociale sono rimasti a volte nel più completo isolamento, e non sono stati in grado di produrre alcun cambiamento reale.

Il problema concreto è quello dell'organizzazione del corpo separato in quanto corpo separato. Vale a dire: creare le condizioni perché possa svilupparsi una attività trasformativa della realtà sociale. Non basta che si dichiari la sospensione delle norme e delle consuetudini perché ciò accada: è necessario che norme e consuetudini alternative prendano piede. Questo passaggio è forse quello più rischioso, quello nel quale si decide della sorte del corpo separato: la sospensione della realtà sociale consueta forma una divisione nello spazio sociale: un dentro ed un fuori. Fuori vi è la società-oggetto dello sforzo trasformativo, critico o di controllo, dentro vi è un'altra società-soggetto dello sforzo trasformativo. Non si può mai sottolineare abbastanza come non vi è coincidenza fra la società-soggetto (il corpo separato) e la società-altra alla quale si aspira.
Si tratta di una dinamica fra tre poli, due dei quali reali (società-oggetto e società-soggetto) e uno potenziale (società-alternativa). La società-oggetto rappresenta allo stesso tempo il materiale della trasformazione, vale a dire la possibilità concreta del proprio trascendimento, e la resistenza delle istituzioni presenti a tale trasformazione. E' un corpo organizzato che si desidera organizzare altrimenti. L'organizzazione alternativa (realistica o meno) costituisce l'orizzonte dello sforzo trasformativo, ciò che si vuole raggiungere. L'organizzazione-soggetto è il polo più precario: essa può esistere nella misura in cui

1) Vi sono possibilità irrealizzate nella società-oggetto
2) Vi sono resistenze che richiedono uno sforzo coordinato nella società-oggetto
3) La società-alternativa è pensata come possibile
4) La società-alternativa rimane irrealizzata

La negazione di ciascuno di questi presupposti risulta nella negazione della legittimità della società-soggetto, vale a dire del corpo separato e in particolare del gesto che lo separa dal corpo della società-oggetto (e vale la pena ricordare che la legittimità in questo caso funziona non solo sul piano teorico, ma anche sul piano retorico, come strumento principale per la mobilitazione di energie umane eccetera). Ne risultano le quattro principali posizioni ideologiche ostili alla formazione di corpi separati, che chi detiene il potere nella società-oggetto finirà quasi inevitabilmente per assumere.

1') La società-oggetto non è trasformabile
2') Non vi sono resistenze alla trasformazione che richiedono uno sforzo coordinato nella società-oggetto
3') La società alternativa è impossibile
4') La società alternativa è già realizzata

(1') corrisponde al fatalismo di chi sostiene che questa sia l'unica società possibile. (2') corrisponde alla posizione di chi sostiene che in fondo godiamo già in questa società di tutta la libertà e le possibilità di trasformare la nostra condizione, e che la necessità di uno sforzo collettivo è solo la scusa di chi non vuole impegnarsi in prima persona (è l'obiezione che si nasconde dietro la popolare frase "andate a lavorare"). (3') differisce leggermente da (1'), ed è più generale: afferma che questa società può cambiare, ma non nella direzione di una società alternativa, bensì solo degenerando in una società peggiore. E' la posizione di chi sostiene che i militanti e in genere i corpi separati sono pericolosi ed il germe della barbarie. (4'), infine, sostiene che non c'è alcun bisogno di cambiare la società o il mondo, dal momento che esso è già perfetto così com'è.

Bisogna fare a questo punto una serie di annotazioni: mentre (1), (2), (3), e (4) sono presupposti che presi nell'insieme definiscono le condizioni di esistenza della società-soggetto in quanto agente di trasformazione sociale, e dunque sono coerenti nella misura in cui non si cancellano a vicenda, e servono a delimitare lo spazio di tale possibilità, (1'), (2'), (3') e (4') non sono coerenti, ed anzi a volte si contraddicono, specialmente (4') e (2') contraddicono (1') e (3'), mentre vi sono differenze ma non immediata contraddizione fra (4') e (2') e fra (1') e (3'). Mentre (4') e (2') sostengono l'inutilità dell'esistenza del corpo separato, dal momento che negano la distanza fra due stati di cose (società-oggetto e società alternativa) o la necessità di uno sforzo per colmarla, (1') e (3') affermano l'incolmabilità di una tale distanza, per i diversi motivi che la società oggetto non si può cambiare, o la società alternativa non si può raggiungere.

Fino a qui, abbiamo formalizzato le condizioni di esistenza della società-oggetto e le posizioni che portano a negare la sua legittimità.
Portiamoci ora ad uno sguardo più vicino sulle dinamiche interne a quel corpo separato che è la società-soggetto, vale a dire un gruppo organizzato di persone che vogliono cambiare il mondo. Possiamo innanzitutto aiutarci nella nostra analisi formalizzando ciò che già sappiamo essere gli obiettivi di un tale corpo separato.

A) La società-soggetto deve produrre la trasformazione di società-oggetto in società-alternativa.

Questo è lo scopo principale, rispetto al quale tutti gli altri devono essere accessori. Eppure ci si accorge immediatamente che perché (A) sia seriamente perseguito devono immediatamente darsi tre obiettivi collaterali, che occuperanno il corpo separato immediatamente in misura ben maggiore di (A), destinato a rimanere sullo sfondo.

B) La società-soggetto deve continuare ad esistere

da cui seguono immediatamente

B1) La società-soggetto deve mantenersi distinta dalla società-oggetto
B2) La società-soggetto deve organizzarsi autonomamente dalla società-oggetto

Infatti è facile vedere come un qualunque gruppo, se è costretto ad affidarsi agli stessi meccanismi sociali che vuole criticare per continuare ad esistere, non potrà mai essere efficace né coerente, e se dipende dalle stesse strutture che vuole criticare per esistere, non potrà che autodistruggersi come primo atto critico: si pensi, per assurdo, alla sorte di chi volesse proporsi come capo assoluto di un movimento per l'abolizione delle gerarchie (a chi rispondesse citando questo o quel capetto populista si ricorda che nel mondo reale le contraddizioni logiche a volte hanno bisogno di tempo per emergere, ma infine emergono infallibilmente, e pochissimi di coloro che hanno portato l'autoritarismo sotto la bandiera dell'uguaglianza hanno poi evitato di subirne le conseguenze).

La posizione della società soggetto, vale ripeterlo, è assolutamente precaria, e anzi essenzialmente precaria. E' facile vedere come la realizzazione dell'obiettivo (A) finisce per negare le condizioni stesse di esistenza del corpo separato: se la società oggetto diviene realmente la società alternativa, le condizioni (2) e (4) di esistenza della società soggetto cadono. E' quello che intendeva forse Marx quando prevedeva una società senza classi al termine della lotta delle classi. Ogni serio gruppo rivoluzonario deve essere pronto a scomparire, senza desiderio di trasformarsi in gruppo egemone o di essere ricompensato in quanto tale. Altrimenti lavora segretamente alla propria sconfitta, che paradossalmente è anche la condizione della propria esistenza.

Dunque, come abbiamo visto, i corpi separati vivono in equilibrio precario sulla trasformazione. Il pericolo più grave che corrono è invertire l'ordine degli obiettivi strategici, far passare (B) sopra (A), e dunque cercare, invece che di trasformare il mondo, di mantenere lo stato in cui il mondo è trasformabile ma non trasformato. Di sconfiggere le critiche asserendo le condizioni 1-4, invece di tentare di annullare la (1) e la (2). Dimenticano in tal caso che tali condizioni non valgono che a partire dall'obiettivo (A), che abbiamo battezzato solo alla fine, ma che era il presupposto dell'intero nostro discorso.

Come si comportano i gruppi separati, vale a dire i gruppi militanti che hanno dunque subìto la degenerazione di cui sopra? Essi si riconoscono per il fatto che, realizzata a livello inconscio la coincidenza del successo e della dissoluzione del gruppo in quanto tale, hanno scelto consciamente o inconsciamente la perpetuazione del tentativo a spese di qualunque successo. Perché ciò sia possibile deve esservi fin dall'inizio un motivo che spinge i militanti alla loro azione separato dalla volontà di trasformare il mondo. Esempio piuttosto facile è il narcisismo: spinti alla militanza dal desiderio di trovare un posto nel mondo, riconoscimento sociale all'interno del corpo separato, alcuni militanti non vogliono rinunciarvi pure a costo di fallire. Altrettanto pericolosi sono gli affetti, che pure si sviluppano naturalmente fra coloro che condividono motivazioni, pensieri e azioni: trovando fra i militanti una "seconda famiglia" si finisce a volte per vegetare, rimanere marginalmente attivi e godersi i piaceri di una sfera sociale funzionale, amorevole ed autoreferenziale, con il bonus del senso di superiorità verso gli altri. Inutile dire che in tali casi la militanza si sconfigge da se, prevenendo il proprio successo. Le autorità hanno da tempo imparato che il modo più efficace di distruggere un gruppo di militanti è facilitare in esso alcune dinamiche che lo renderanno presto completamente inattivo, premiando la naturale spinta all'autoconservazione e all'inerzia con un po' di spazio (mediatico o decisionale) assolutamente marginale ma gratificante. Lo sforzo deciso per distruggere un gruppo di militanti, al contrario, produce l'effetto di mettere in evidenza la necessità che esso esista (esibendo l'intollerabile arbitrio del potere) e di far emergere quelli fra i militanti che sono davvero irriducibili (e che si allontanerebbero da soli da una situazione stagnante come quella sopra descritta).

Vale la pena notare, infine, che non è possibile segnalare con esattezza nella pratica concreta il momento in cui un corpo separato o società soggetto smette di assolvere alla sua funzione principale per rassegnarsi alla propria autoperpetuazione come unico scopo. Si spera tuttavia che chi legge questo pezzo ne tragga qualche ispirazione, nonché forse qualche strumento analitico ed indicazione sui modi e sulle procedure adatte a portare avanti con profitto, o con onestà, una pratica collettiva di trasformazione della realtà.

Dal nostro punto di vista, di cercatori di crepe, quello che si è cercato finora di suggerire come oggetto di attenzione, crepe nello scafo, faglie trasformative, potrebbe essere interamente riletto come supporto alla prima precondizione (1) di esistenza di un corpo separato. La crepa reale che è qui in questione, tuttavia, è fra (A), e (B), una crepa pericolosa, infida, che non si annuncia e che inghiotte le nostre migliori speranze, se non si è in grado di vederla e prevederla.

08/02/15

Io e Te


Ci sono un sacco di cose che mi confondono, della realtà contemporanea. Non è per forza una brutta cosa: in fondo chi non è confuso non presta attenzione alle cose che lo circondano, come ha detto di recente il Dottor Who e un po' prima Aristotele.

Un altro grande cervello un po' meno conosciuto dei due sopracitati, Enzo Melandri, usava invece dire che il pensiero - e la parola - sono sintomi di un malfunzionamento. Vale a dire: se qualcosa affiora alla coscienza, è perché gli innumerevoli strati di elaborazione pre e sub-coscienti non si rivelano in grado di gestirla, e lo stesso vale nella gestione dei rapporti fra i vari strati della coscienza e del funzionamento umano. (Un esempio: quando nella vita di un piccolo paese qualcosa eccede la normale amministrazione diventa necessario convocare un ulteriore livello di gestione extra-ordinaria, ad esempio una decisione politica dall'alto).

L'apparire di un pensiero è per se sintomo di qualcosa. Il fatto che sembri arrivare dal nulla (mi è venuta un'idea) va considerato solo il segnale di un attraversamento di soglia. E' ovvio che se la soglia è quella della consapevolezza, ciò che arriva di qua sembra arrivare dal nulla. E' quindi ovvio che chiedersi da dove arrivano determinate intuizioni è futile: è addirittura parte della regola di produzione di tali intuizioni che l'origine non sia davvero rintracciabile.

Ovviamente, i contenuti che per un soggetto sono rimossi o altrimenti estranei alla consapevolezza, possono essere oggetti disponibili alla coscienza di un altro soggetto. Senza questa possibilità non avrebbe senso il lavoro del terapeuta  quello del critico letterario. Non vi sarebbe infatti alcunché da aggiungere alla lettera di un testo, né al nudo evento del comportamento umano. Vale la pena notare alcune immediate conseguenze per la relazione fra gli individui di questa diversa distribuzione di contenuti consapevoli ed inconsapevoli.

1) l'altro dispone a volte di un accesso diretto a componenti che, pur efficaci nel determinare il nostro comportamento, non ci sono direttamente disponibili.

2) a partire da differenti distribuzioni di contenuti consapevoli ed inconsapevoli, è a volte possibile che a volte si verifichi una distribuzione speculare: in tal caso posso chiaramente distinguere i motivi inconsci di un altro, ma non  miei, che invece sono disponibili alla coscienza dell'altro.

3) a partire da differenti distribuzioni di contenuti consapevoli ed inconsapevoli, e dalla ricchezza inesauribile delle combinazioni che essi producono, è possibile che numerose analisi differenti della componente inconsapevole di un comportamento o testo vengano prodotte senza che si possa arrivare a decidere quale sia quella esatta. L'unico modo per ricostruire i rapporti fra diverse analisi è disporle secondo una gradazione intensiva di efficacia o adeguatezza, ma anche tale ricostruzione non è neutrale, e finisce per esprimere una particolare prospettiva (che può avere a sua volta componenti e motivazioni non del tutto consapevoli)

Presumibilmente, a questo punto, siete un po' più confusi anche voi. Quello che tuttavia dovrebbe essere chiaro, se le premesse di questa argomentazione vi sembrano plausibili, è la vuotezza di alcune locuzioni molto comuni, e si direbbe centrali alla costruzione di una ideologia neoliberale. Non si tratta propriamente di discorsi, né di tesi sostenute da qualcuno, ma appunto di locuzioni: con questo termine si intendono indicare forme linguistiche accompagnate da riflessi di pensiero. Strumenti di un dialogo, funzionali sul piano pragmatico - del discorso come serie di azioni - e quindi riguardanti più l'etica e la tecnica del dialogo che il suo statuto logico-filosofico. (è anche da notare che questa distinzione, necessaria all'esistenza di un piano etico-tecnico del discorso è intenibile sul piano logico-filosofico, e quindi, come quella di una "soglia" della coscienza, è asimmetrica: da un lato è necessaria ma invisibile, dall'altro visibile ma enigmatica ed inspiegabile).

Una locuzione esemplare è: "tu cosa ne sai di come mi sento?". Essa si presenta, con le molte varianti sul tema, in situazioni nelle quali l'altro agisce in base a presunzioni sul nostro stato mentale, o sostiene di conoscere il nostro pensiero. Sul piano teorico, non c'è nulla che impedisca all'altro di conoscere meglio di noi i nostri motivi interiori. Egli non sa però cosa si prova. Rivendicare un accesso diretto ed esclusivo al proprio interno significa ribaltare la teoria contemporanea della conoscenza, e risalire alla teoria classica del "simile conosce il simile", che pur scartata nell'orizzonte scientifico, sembra insuperabile (e decisamente economica) nell'orizzonte umano, anzi profondamente imbricata nella nostra costituzione psichica sotto le forme dell'empatia (nella neuroscienza contemporanea un salto in avanti considerevole in tale direzione si è compiuto con lo studio dei neuroni-specchio).

Ecco, dunque, apparire la nostra crepa di oggi: da un lato, sul piano dei contenuti e della loro disposizione su vari livelli riferiti variamente gli uni agli altri, dobbiamo sostenere che gli altri sono per noi un mistero assai meno complesso di quanto essi non siano per se stessi. Se non bastasse a rivelarlo l'iscrizione sul tempio di Delfi, che consigliava come compito massimo ed ultimo di conoscere se stessi, ancora più ovvia è l'esperienza comune di quanto sia più facile consigliare gli altri riguardo a problemi privati e personali che li riguardano che affrontare i nostri in prima persona.
Dall'altro lato, tuttavia, continua a valere la regola secondo la quale ci si capisce meglio non quando si è consapevoli delle stesse cose, ma quando si hanno come presupposti - si danno per scontate - le stesse cose. L'esperienza di chi espatriando realizza improvvisamente quanti riflessi inconsapevoli e abitudini inosservate rendevano coerente e "naturale" la via nel suo ambiente originario - correlato cosciente usuale, questo, della nostalgia - sottolinea come nessuna teoria può rimuovere la necessità di una comprensione reciproca che viene dalla condivisione di ciò che non sappiamo di stare facendo, finché non smette di funzionare (e allora, come dice Melandri, iniziamo a pensarci.)

Una ulteriore riflessione collega la crepa fra il conscio e l'inconscio e quella fra l'empatia e la ripresa consapevole dei contenuti inconsci dell'altro (comportamento che accomuna la psicanalisi, la filosofia, la critica dell'ideologia e l'antropologia, benché tali discipline lo sviluppino su livelli diversi). L'empatia, infatti, stando a quanto abbiamo detto, origina da una sovrapposizione delle componenti inconsce, mentre la riflessione è possibile solo grazie allo sfasamento che ci rende comprensibile l'inconscio dell'altro. I due modi di comprendere qualcuno si escludono a vicenda: vale a dire, non sono possibili contemporaneamente. Conoscere le strutture inconsce dell'altro diventa un ostacolo profondo alla solidarietà con lui, a meno che io non possa occasionalmente (e strumentalmente) dimenticare ciò che so per immedesimarmi.

Tale complementarità può essere ritrovata in innumerevoli occasioni nel comportamento umano, ad esempio istituzionalizzata nel comportamento del terapeuta (che deve essere specialmente consapevole e preparato a gestire il transfert senza perdere la lucidità e la professionalità che lo separa da e gli permette di "studiare" il paziente), oppure come elemento di tragica contraddizione nell'intellettuale di sinistra: preso fra la necessità di capire la congiuntura - e dunque individuarne consapevolmente i presupposti inconsci - e quella di essere continuo ed empatico con il proletariato, finisce per venire considerato fazioso dai colleghi degagé (che possono permettersi il lusso di essere lucidamente anempatici e dunque teoricamente rigorosi) e freddo e distaccato dai proletari (che non si fidano, perché sanno di non condividere fino in fondo con l'intellettuale i moventi dell'azione, sapere inconscio che si rivela alla coscienza come costante timore che l'intellettuale tradisca).

Questi pochi esempi, dunque, mostrano come una considerazione ad un tempo epistemologica e politica capace di trattare allo stesso tempo della rilevanza tecnico-pragmatica e logico-teorica degli atteggiamenti nei confronti dell'altro permette di individuare uno spazio pluridimensionale degli atteggiamenti umani. Abbandonando l'idea che la teoria sia neutrale rispetto ai rapporti (di potere, di affetto et cetera) ci troviamo però a dover risolvere il problema del ruolo che essa svolge nei rapporti fra esseri umani.

La cosa è specialmente urgente nei casi in cui bisogna organizzare lo sforzo di una serie di individui, ognuno coi suoi moventi consapevoli e non, ed accoppiarlo ad una teoria che serva da strumento di lettura del mondo circostante ed insieme da strumento operativo, atto a mobilitare energie e a rendere coerente il lavoro complessivo. Allo stato attuale, sembra che le risorse per una attività del genere siano disponibili, eppure in qualche modo separate e rese inattive dalla costruzione degli ambiti di studio. La situazione è tuttavia contingente: il problema è se un ulteriore stadio di integrazione scientifica e di consapevolezza umana avrà il tempo di svilupparsi prima del collasso del pianeta o dell'estinzione della specie umana, evento ormai dotato di una probabilità non trascurabile nel breve periodo.