13/11/15

Linee


Rispondi, in fretta: cosa ti porta? Cosa ti spinge?
Chissenefrega (prossima domanda): Quale di queste figure fa piangere
Il cadavere dai denti d'oro?


La prima volta ci arrivi senza sforzo
La seconda la ricerca è già ossessione
La terza  il fantasma del Metodo compare
Per frustrare dolcemente l'eroe, il santo.



Cosa succede a sperare troppo a lungo?
Cosa succede ad attendere la giustizia?
Cosa succede ad abusare della serenità?
Quale forma di violenza è sublime?



Preferisci il gioco delle domande e delle risposte
O quello del limite e degli attraversamenti?
Incontrare il tuo destino o un vecchio amico?
Un raro segreto o un'ovvia felicità?


Non tutto ha capo, ciò che è stato fatto
Non tutto torna a galla, dopo l'urto.
Ciò che non ricordi, sedimenta
e prima o poi ti tradirà.


03/11/15

Ritorni

Per assomigliare a me stesso faccio sforzi incredibili.

A volte, a partire da carne mobile, costruisco una fisionomia: la studio sul dritto e sul rovescio e mi dico: si, è proprio così che sono, proprio così mi definisce lo sguardo. Devo solo stare attento, mi dico, a non cambiare postura. A mantenere gli slittamenti, le metamorfosi, abbastanza lontani dalla consapevolezza da non turbare il mio saldo senso di me, abbastanza vicini da poterli evitare in tempo.
La malafede è questione di spina dorsale, di tono muscolare. E' il gioco dei mascheramenti che scorrono gli uni sugli altri.

A volte, stanco dell'ambiguità del corpo, mi metto a costruire diagrammi. definisco assi teorici, direttrici, asintoti, a partire dai quali misurare intensità crescenti e decrescenti, deviazioni. Provo a tracciare la curva della mia evoluzione, eccomi salire e scendere secondo il variare dell'attenzione, della compassione, della lucidità. Tengo la contabilità degli affetti, dei saperi, dei doveri.

Quando i conti non tornano, ricorro all'Altro. Mi installo in un certo punto, osservo il mio posto nel gioco incessante delle classi, delle razze, dei continenti, delle generazioni. Qual'è il mio posto? Me lo diranno le relazioni oppositive, le sintesi, le fascinazioni. La sovrapposizione di definizioni classificatorie.

Se mi perdo, lascio che sia l'azione a riassumermi. Nessun residuo, nessuna giustificazione: d'altro canto nulla esiste al di là del gesto semplice, nitido, che riassume forma, traiettoria, oggetto, e al tempo stesso traduce in intensità pura l'estensione dei corpi, della teoria, delle relazioni.
La strategia cade a spirale, precipitata nell'atto di coraggio. Soluzione romantica.

Eppure, infine, non sono che me stesso, non importa se come carne formata, traiettoria esistenziale, punto definito del campo sociale, atto puro. Le interpretazioni non sono che la forma ultima della fede, e cercando il mio somigliante non faccio che declinare il mio "credo".
E, sempre, incontro l'insoddisfazione: il mio desiderio segreto è quello di trovare, a un certo punto, che non mi somiglio, da tutti i lati.
Che la carne mobile di colpo si squagli, fluendo in ogni direzione
Che gli assi teorici, vittime di una torsione gravitazionale, si pieghino su se stessi, ed intorno ad una contraddizione che buca lo spazio, inaugurando un'altra dimensione.
Che  l'Altro smetta di offrirsi come sponda salda per i miei confronti e classificazioni: che io possa inghiottire le classi e i continenti, e a mia volta farmi inghiottire. Ripiegare il campo sociale su se stesso, dirottando le circolazioni di senso che ne confortano la stabilità.
Infine, che l'azione mi porti oltre. Che io non debba riconoscermi in essa, né misurarmi (gesto sportivo, atto eroico o romantico), ma scomparire, consumato, assorbito (karma yoga, nihilismo attivo).

Un'altra circolazione è possibile, al di là dello spostamento che mi rimanda da una strategia alla prossima, e infine all'esaurimento: quella che fa convergere le mie strategie dal lato del loro fallimento, non più reticolo dell' identità ma spazio smisurato dell'orbita vuota. Vertigine del potenziale inesauribile, dell'annientamento definitivo. (soluzione mistica)

Come in ogni epoca, l'eresia agisce radicalizzando le pretese della fede. Spalancando il limite, sperimentando attraversamenti su tutti i lati.
Eppure, come in ogni epoca, l'eresia appartiene alla stessa orbita dell'ortodossia: una questione di sfumature distingue il segno vuoto dal segno pieno, il se dall'ego, e non di rado l'andirivieni di una oscillazione porta senza sosta dall'uno all'altro.
Questi li chiami: sbalzi d'umore.

Per assomigliare a me stesso faccio sforzi insinceri, trovando il godimento nella frustrazione, e la frustrazione nel godimento. Il primo limite della verità è il limite ultimo del soggetto, e questa, che è la più ovvia delle regole epistemologiche, non compare ormai da nessuna parte se non in forma derisoria di eufemismo:
(presa di distanza, prospettiva metodologica, framework teorico)

Ogni ricerca è il diagramma di uno smarrimento. 
Ciò che si perde lungo la via è più importante di ciò che si troverà.
Rientrando nella caverna si viene masticati.

17/10/15

Rivoluzione


Ti sembro uno che scherza?
Io non so cos'è una metafora, non so cos'è un'allegoria. Non capisco l'ironia. Non ho senso dell'umorismo.
Io sono serio, dall'osso all'osso. Duro come la pietra e tutto d'un blocco.


Non mi piacete.
La superficie, come un taglio, si insinua nei vostri modi, nei gesti, negli sguardi fino nel profondo. Si capisce dalla sorriso smorfioso, dai tentativi di ilarità ostentata, che sotto si stende dell'orrore, una lugubre pozza.
Una vita senza sonno. Idee piccole o riciclate, espressione mediocre. Duecento like per coprire la paura.
Esserci subito o scomparire, e gli adattamenti tattici susseguenti:
Intensità che latita. Tutta superficie, tutti giochi di parole.
L'intensità impastata in ideologia densa come gli ammassi di alghe proliferanti velenose e plastica che soffocano il pacifico.
Da tutte le parti.
Con o senza i risvoltini.
Con o senza un'educazione classica.
Con o senza una "coscienza politica".
Vivere per scontato.


Con un occhio spalancato e l'altro pesto vi guardo passare da tempo e provo a tenere la mente lucida fra le correnti di compassione e dispetto.
Non siete voi il mio nemico.
Sarebbe troppo facile, rassicurante, prendervi di mira, disegnare una simmetria, fra voi e me, che faccia la paura solo vostra, la ragionevole indignazione solo mia.
Persino dentro la divisa, anche voi siete esseri vivi, futuri buddha, destinati ad uscire un giorno dalla ruota delle rinascite. Oppure no, sticazzi delle mitologie importate come di quelle nostre. Anche voi siete esseri umani, scimmie febbrili come lo sono io, esseri transeunti, capaci di trasformazioni multiple, di miracoli e rinascite.

Anche se sarebbe così facile, così immediato e riposante, dichiararvi guerra, la consapevolezza mi trattiene.
Consapevolezza del fatto che il sistema di domesticazione del simbolico digerisce alla stessa maniera l'enfasi e il disgusto, la rabbia e l'accettazione. Nel bene e nel male, secondo un vecchio slogan, basta che se ne parli, e l'unica differenza è quella fra un passo avanti ed uno indietro, nel balletto incessante della società dello spettacolo.
A che pro tentare di distinguersi, ferire? Disgustare? 
Non sarebbe ormai che replicare il movimento con il quale tentate di distinguervi gli uni dagli altri (in versioni più raffinate, c'è anche chi tenta di distinguersi smettendo di tentare di distinguersi. Minimali. Normcore.)
La rincorsa all'originalità si è consumata, non ne rimane che l'eco sgraziato, nello spazio senza direzioni. Le avanguardie si disperdono a raggiera, e nessuna si preoccupa più di segnare la via, di preparare un destino: la maggior parte si perderà nel terreno desertico, lontano dalle linee di rifornimento, o verrà ben presto accerchiata dalle sapienti manovre del nemico.


Così mi mordo la lingua e ve le lascio passare tutte.
Mi mordo la lingua, ficco le mani in tasca, a fondo, e mi ripeto che alla fine le vedremo tutte. Che un giorno verrà la resa dei conti, e l'ironia degagé, il tempo speso davanti ad uno schermo, avranno un costo più che reale.
Quando sono sentimentale, mi consolo e vi perdono, pensando alla vita di merda che fate. Che dovete necessariamente fare, presi come siete nell'esercizio frustrante della costruzione di voi stessi a favore di camera. Altre volte la cosa non mi pacifica, e anzi finisco per sentirmi in colpa, ricaduto nella trappola dei rancori, delle fantasticherie di vendetta.

Niente di ciò basta.
Eccovi: riempite il mondo.
La mia generazione: una manica di stronzi postideologici, menefreghisti, egoassorbiti sulla superficie di un pianeta in esaurimento.
Sia detto senza offesa.
Copie-carbone dei padri peggiori.
Sempre più rimossi dalla realtà.
Sia detto con affetto.

A stare calmi sempre, l'odio forma un grumo appena sotto il plesso solare.
Hai un bel cercare di sfogarti. Hai un bel cercare di mettere tutto in prospettiva.
Tanto varrebbe ritornare ad una delle più copiate invenzioni del made in italy.

Questa non la spiego. Chi la sa, la sa. Gli altri non li spaventiamo.

E poi, come sempre l'idea si presenta da se. Semplice, lineare. Nettissima. Per giunta, niente di nuovo.

Occorre fare la rivoluzione.

"Ma come - direte - ancora con la rivoluzione? Ancora con la materia, con i mezzi e i rapporti di produzione? Non sai che è una prospettiva utopica?"
Così rispondete, in genere.
Dal netturbino al punkabbestia, dal giovane borghese al cineasta, dall'affettato filosofo al militante politico, eccovi di nuovo uniti, contro questa che è la più semplice, la più ovvia delle trovate.
Si, amici.
Si, signori e signore.
Si, compagn*.
Occorre fare la rivoluzione.



Quanto alle vostre obiezioni, residui marci di quella che, nonostante lo sia, non vi va più di chiamare ideologia, la cosa è presto detta.
La rivoluzione non è un evento desiderabile.
Non è un progetto credibile.
Non è una possibilità realizzabile.
Non è un sogno.

La rivoluzione è un'esigenza radicale

Guardati intorno: la forma-rivoluzione ossessiona ogni evento, ogni struttura della realtà che abiti.
Il suo schema funge da centro ordinatore di ogni movimento sulla superficie degli eventi. 
Dallo scandalismo giornalistico alla moda, dalla musica rock alla retorica politica.
Rivoluzione tecnica.
Rivoluzione musicale.
Rivoluzione estetica.
Rivoluzione stagionale dei costumi, ossessiva, ripetuta.
Le ore che passi dietro uno schermo non servono a questo, a stare dietro alle "tendenze", sequenze rapide di trasformazioni (presunte) radicali, benché separate, neutralizzate. In fondo, non è questo che si inscrive nell'ambizione di ciascuno? Rivoluzionare il proprio campo. E' grande, è un genio colui che cambia le regole, che si fa valere, che stravolge.
Il sistema non è altro che un complesso montaggio che gioca l'evento contro l'evento, che neutralizza la portata trasformativa schiacciandola su un piano singolo, capitalizzandola in una carriera privata. La rivoluzione è l'intensità inappropriabile di una trasformazione singolare, concreta. L'evento in forma pura. La rivoluzione è quello che cercate ogni minuto di ogni giorno, dai risvoltini al veganesimo, e il fatto che non lo sappiate è alla base della costante frustrazione vostra e mia. La rivoluzione è la vostra ossessione segreta, che ogni giorno vi sveglia e vi sfianca, che ogni giorno tradite.
Ed è per questo che giocare al gioco della "comunicazione", fare il surf sulle onde del desiderio rivoluzionario, è giocare col fuoco.

Questo schema è insieme accurato e paradossale. Può esserlo dal momento che l'arte, da tempo, cerca di produrre sotto il segno e nella cornice dell'individuo ciò che può esistere solo collettivamente. In termini soggettivi, quindi, se ne può dare descrizione appropriata solo attraverso un paradosso.

Ecco messa a nudo la radice della mia frustrazione.
Sarebbe facile, dichiararvi già morti, privi di ogni energia, burattini di legno o statue di pietra, zombies. Cosa potrei mai rimproverarvi?
Invece da ogni parte siete vivi e sani e belli. Eleganti, e pieni di perfezione, pieni di intelligenza ed intensità.
Sarebbe facile dichiarare che vi "ingannano", che dovreste "svegliarvi", "prendere coscienza" della realtà. E invece no.
E' in piena coscienza, e nel vostro pieno diritto che continuate a svendervi, a fottervi, a prostituirvi per un piatto di ceci. L'uno contro l'altro, e bastano le quinte di un talent, la cornice blu di una permanente sfilata, a torcere ogni vosta energia ruggente nel guaito di un animale domestico, seducente.
E vi deprimete per stronzate. E vi incazzate per stronzate.
E tutto è sempre normale, tutto è sempre già visto: perché il cinismo è fico, come la risposta depressiva, l'ebefrenia della scoreggia, l'ossessione compulsiva che passa per intelligenza. Invece è ridicolo lo schizofrenico, e l'unico role model che non passa nelle centinaia di ore di serie televisive che guardate è quello di un rivoluzionario serio, razionale, sereno, contento e benevolo.

Non che non ci vadano vicino, in fondo. E più ci si avvicinano più fanno colpo. Tuttavia alla fine, che disdetta, quello "reale" dei due è sempre il debole, sempre la merda. E il vero rivoluzionario nient'altro che il pezzo staccato di una personalità psicotica.

Ma io queste cose come ve le dico? Come ve lo dico che ogni vostra qualità mi fa incazzare per come la sprecate? Come ve lo dico che tirate a campare quando dovreste mirare all'eterno, o quantomeno a un briciolo di reale felicità? Come ve lo dico senza sembrare un prete o un rosicone?
Eppure come non provarci? Meglio fallire, mi dico, che soffocare.
E quindi ripetiamo:

La rivoluzione non è un'idea.
La rivoluzione è l'unica cosa che può rendere reale la tua finta vita.
Però non basta prenderne coscienza, dobbiamo farla.
Passo dopo passo, pensiero dopo pensiero, osso dopo osso.
Ti voglio bene.

Difaul.

15/10/15

Più pensi, meno capisci

Più pensi e meno capisci.
Come quando ripeti una stessa parola centinaia di volte, e alla fine si arrotola su se stessa, polverizzata, flusso di suoni ininterrotto senza senso.

Eppure non è forse questo il meccanismo fondamentale del mantra, del rosario, del namasmarana? Il nome ripetuto. La cancellazione di senso, la riduzione a puro effetto. (E' essenziale che il nome sia sacro? O non diventa sacro dopo l'ennesima invocazione?)
Non è forse questo un nome? Un effetto dispiegato sul campo dei nomi propri, realtà reale che precede/eccede la rappresentazione?

Più pensi, meno capisci.
E allora, a che serve il pensiero? A crivellare i pensieri, che sono la sostanza del vivere.
E' un uso singolare quello che oppone il singolare al plurale per giocarli l'uno contro l'altro. Come l'idea che si gioca contro le idee singole, o La Filosofia che si sbrindella in filosofie plurali.
Non è mai un passo neutro, quello dal singolare al plurale.

Ma a che serve il pensiero? A farci più masticabili a noi stessi? E come finisce? Con una stretta di spalle, con un grido di giubilo (in ogni caso, l'espressione può essere sintetizzata in un "allora è così", o puttosto "era questo dunque..."). O non è invece uno sforzo produttivo? L'azione! grida qualcuno. Non se ne può fare a meno. Bisognerà essere "concreti". E' necessario.

E a cosa servirà l'azione? A crivellare la materia, a separarla, a polverizzarla fino a che i nomi a loro volta polverizzati possano raccoglierla, aderirvi, e riformare nel montaggio del desiderio sparso e delle forme indistinguibili una eco del pleroma originario? La cosa ha l'aria di un pio sogno.
Oppure servirà appunto l'azione a non dover pensare? Un colpo di spada, ed ecco il nodo in terra, in pezzi.

Nell'insicurezza, bisogna ricorrere alla rozzezza delle generalizzazioni, (Non potremmo nemmeno parlare senza evocare il fastidio di interlocutori. Non si può pensare en plein air, e anche l'interlocutore più cedevole, socratico, dichiaratamente pretestuoso diventa, se appena si è un po' più onesti, la sede di un contraltare inquisitorio.)

Insomma, cosa vuole questo pensiero? Abbiamo il coraggio di dichiarare almeno questo: che esso più che servire vuole da noi qualcosa, lo pretende? La chiamata, la vocazione, non ha nulla del soave e seducente canto angelico. E' la lagna del bimbo che pretende ripetendo con la pazienza più ossessiva, con l'urgenza più radicale, l'incomprensibile.

Si può forse addormentarlo, ripetendo all'infinito una stessa parola, o una serie ritmica di parole. Si può forse farlo tacere, raccontandogli una storia.

E' tutto? Basterà questo? La ripetizione incessante? Non c'è dunque alcuna verità nuova da enunciare? Nuovi orizzonti? Nuove crisi? Nulla su cui accapigliarsi?
No.
Non fa parte del nostro gioco, la polemica. E' solo una moda, e assai tarda, per giustificare l'editoria.

Va detto che il nostro è un gioco antico, e che è un gioco da codardi. In un mondo in pezzi, si tratta di giocare un gioco di collaborazione infinita. Ci si può trovare al tavolo con chiunque. La scelta "di parte", l'"onestà intellettuale", la "coerenza" si paga, in termini filosofici. E' un limite, un peso.
Ma nel gioco che giochiamo, vincere è considerato assai rozzo.

Pensare fino in fondo che cosa, se non la realtà? E come pensare la realtà fino in fondo, senza portarsela addosso, pensando?

Più pensi e meno capisci. Lascia indietro i concetti di guadagno e costo, quelli di vittoria e sconfitta, in un primo momento. Potrai riprenerli più tardi, quando avrai capito come tenerli da entrambi i lati, in un conteggio senza unità di misura, in una contesa senza contendenti.

Le tentazioni sono innumerevoli, metafore seducenti: la battaglia, il mercato, l'opera d'arte, l'architettura, la genealogia.
Non si può rifiutarne nessuna. L'unico peccato, nella singolare etica che determina la regola del pensiero, e cedere ad una soltanto, prendendola troppo sul serio.
Come precauzione preliminare, sarebbe ancora meglio mischiarle: pensiero come contrabbando, come artificio incestuoso, come critica artistica, come sabotaggio strutturale.

Più pensi e meno capisci. C'è un godimento singolare in questo. Uno sfondamento. Il pensiero è una forma di disattivazione del corpo: per quale motivo? Non solo per la banale immobilità dello studio, o il manieristico abbandono della posa pensosa, ma per una certa attitudine.

E' necessario procedere, in un punto cruciale, a corpo morto. Farsi terreno, e non passeggiatore. Atmosfera, piuttosto che volatore. Attendere passivamente che un daimon di passaggio sferri il colpo.
Ci sarà tempo, poi, per definire una critica traumatica o una idraulica degli spruzzi di sangue, una distinzione capillare dell'ematoma o una stratificazione epidermica interessata.

L'essenziale, si fa di colpo, o meglio è fatto di colpo.
Il bimbo che urla, una volta grande, ricorderà forse il frammento di una storia. Si può dire che è quello lo scopo?

Manco per il cazzo.
Piangendo non mi faceva dormire.

23/09/15

Saha

"Com'è la mente di questo vecchio monaco?


Una brezza leggera nel vasto spazio."




Con il tempo e l'esercizio, le cose non si fanno più semplici.
Vorrei scrivere in una dimensione, scrivere in linea retta e non dovermi preoccupare dello spazio, del punto. 

Scrivere come Spinoza: il due che segue l'uno, e poi il tre.

Vorrei scrivere in linea retta dal momento che è il genere di scrittura supremo, il più difficile.

Osservo i saggi, trasformati dalle stratificazioni della memoria in statue di pietra, e cerco di indovinare i movimenti segreti, profondi come abissi oceanici, inarrestabili.
Movimenti senza residui, movimenti semplici, rispetto ai quali non si da tempo né ostacolo. intensità senza unità di misura.

Scrivere senza corpo, o nonostante il corpo? Scrivere senza parlare, senza pensare.
Agire senza intenzione, senza guadagno.


Lo scardinamento concettuale, la decostruzione, sono esercizi ingannevoli se riempiono l'intelletto di pallido orgoglio. Non esiste leva senza perno, nè pensiero senza posizione.

L'esercizio del pensiero dispiega lo spettro delle possibilità umane fra il reale, che è il problema, e il concetto, che è il reale.
Quello che si fa in mezzo è filosofia, e non c'è altra definizione di filosofia che non sia "quello che si fa in mezzo".


Lascia che i pensieri fluiscano dalla testa, che si perdano nello spazio. Infinite sono le lezioni, unica è la verità. I saggi parlano per paradossi. L'umanità procede oceanica verso l'inevitabile illuminazione, ticchettando nel gruire spasmodico dell'accelerazione.

Nessuna paura. Il male è illusorio. 
Il dolore quadruplice è l'unica via verso il vuoto reale.



Buonanotte, compagno Rubasciov. Pensa dritto. Muori bene.

03/08/15

Phase 2

Bentornati, amici, su Crepe, un blog come tanti nell'era della Moltiplicazione Spasmodica.
Dall'ultima volta è passato più di un mese, e non si può dire che il sottoscritto non sia maturato, almeno un po'.
Esito di questa maturazione è la deliberazione sconsiderata di consegnare al mondo - che a dire la verità poco se ne cura - una seconda fase di "Crepe". Dando per acquisito il poco che si è acquisito, e per perso ciò che è perso. Procedendo spediti, ma con cautela, e provando insomma ad essere più spinozisti possibile.
Nel periodo di silenzio di questo blog alcune cose sono cambiate, altre sono restate essenzialmente uguali. La terra ha continuato a precipitare nello spazio alla velocità di 3600000 chilometri orari, la società industriale avanzata ha piantato più a fondo le sue luride unghiette nel subconscio collettivo, enormi passi in avanti sono stati fatti nella costruzione di robot killer e praticamente nessuno per rendere l'esistenza umana sostenibile sul lungo periodo.
L'aria è irrespirabile. L'acqua è velenosa. Il mio stile di vita e il tuo uccidono ogni giorno, molto molto lontano da qui. Composti e compassati, ciononostante, non dobbiamo "arrenderci al panico".
(Abitatori di una psiche descritta solo nei termini di un conflitto irrisolvibile, veniamo costantemente istruiti in termini strategici su come gestire noi stessi. Liberi di pensare ciò che vogliamo, siamo invitati ad esercitare uno stretto controllo su ciò che proviamo.)
La disciplina dell'azione è superata (fare cosa, poi?), ciò che conta è l'entusiasmo, la passione, l'eccitazione febbrile ed euforica. La motivazione inconcussa, cieca, sragionante.
Una duplice tentazione ci stringe: da un lato la fuga, il rifugio nascosto ed inaccessibile di una calma uterina, nella quale recuperare una sicurezza fetale. Dall'altro l'esplosione, l'energia di una rabbia cieca e non più ignorabile, che possa darci infine una identità non-colonizzabile, che possa finalmente "fargliela vedere". Oscilliamo fra il desiderio di una visibilità estrema e quello di un'estrema invisibilità.
Tutti i nostri eroi portano maschere. Coloratissime.
Eppure, anche questa è una trappola: essere visti, rimanere invisibili, colti nell'equivoco per il quale la pupilla è penetrante e a sua volta penetrata da un'immagine.
I lettori di questo blog dovrebbero essere familiari, a questo punto, con l'idea di "doppio vincolo". No?
La rottura creatrice, il momento in cui la contraddizione si rivela infine nella sua ovvietà e insieme trova risoluzione, il momento in cui nascondersi non è più necessario (e ciò che covava sotto la cenere si svela), e la violenza compie il suo ultimo destino, rendendosi infine inutile, prende il nome di: rivoluzione.
Non possiamo ignorare, tuttavia, che rivoluzione è al tempo stesso lo spettacolo supremo, e lo spettacolo a sua volta merce al più alto grado di accumulazione. Dunque, con una originale capriola, alla fine l'economia di mercato si ritorce nel potlach: la distruzione di ricchezza come apoteosi di ricchezza.
(Vedi che succede, a dare supercomputer alle scimmie?)
D'altro canto, una nuova contraddizione si apre: lo spettacolo va replicato ogni giorno, e la rivoluzione dev'essere dunque permanente. La promessa seducente dell'evento assoluto - che non si replica - e la necessità tecnica di infinite repliche. Questo è il miracolo impossibile della contemporaneità, il centro mistico che non si lascia conciliare da nessun realismo, e che impedisce ogni forma di "ultima parola". La regola che spiazza ogni discorso "pubblico", obbligando costantemente a qualche forma di gestione dello scarto.
Alla promessa mai esaudita di rivoluzione, alla messa in scena costante di rivoluzioni fasulle, che ciononostante confondono le acque e intorbidano gli intenti, fino a ridurci al disgusto verso ogni e qualunque forma di resistenza organizzata - incapaci ormai di distinguere il vero dal falso. Nient'altro che un effetto collaterale, e tuttavia utilissimo.

Ciò che abbiamo cercato di dire fin dall'inizio, lavorando la nostra metafora fessurale, è l'ambiguità che consente al sistema di esistere attraverso le sue contraddizioni, riassorbirle e mobilitarle.
Laddove il saggio e l'idiota annusano l'assurdo, il folle vede un'opportunità: il nucleo di assurdità può essere a sua volta investito, funzionalizzato, assunto e propagato. Trasformato nel centro pulsante di una meravigliosa macchina simbolica.
I dispositivi dell'ironia, dell'iperbole, del rovesciamento comico, della parodia dominano la scena. Non c'è diritto al quale non si possa fare "il verso".


Tornando sul piano dell'esistenza individuale, dobbiamo infine chiedere: cosa ci resta? Quale ordine simbolico ci permetterà di riconoscerci come esseri umani? In breve: quale ruolo potremo abitare? La domanda è posta dalle cose stesse, è la pressione di una crisi d'identità generalizzata che echeggia dalle più alte sfere della cultura (di recente Aut Aut dedica un numero all'intellettuale di se stesso, sviluppando la questione a partire dalla tentazione del ripiegamento) alla cantina.
Il suggerimento mainstream, per noi giovani urbanizzati, alfabetizzati rispetto alla frenetica sarabanda dello spettacolo, è chiaro. La complessità dell'apparato industrial-spettacolare richiede competenze di consumo sempre più avanzate. Un certo fiuto, una certa abilità, l'unica che sembra avere ancora un valore pratico.
Giovanissimi videogiocatori diventano star. Giovani stilosi diventano fashion blogger. Da un angolo all'altro della semiosfera, l'ambizione generalizzata è mettere a frutto la nostra abilità di consumatori. D'altronde, è il consumo che fa il valore, ormai separato per sempre dall'oggetto. Sarà dunque il consumo la VERA forma della produzione! Nessun bisogno di costringersi nelle virtù borghesi e cattoliche dell'abnegazione, della parsimonia, del sacrificio. La via californiana al capitalismo insegna che col medesimo gesto si può (e si deve!) essere consumatori e produttori, osservatori ed osservati. Influencers. Opinion leaders.
In una parola: hipsters.


Che non ci sia da fare che questo? Riconoscersi artificiali fino nel midollo, e contribuire spassionatamente alla produzione-di-se? O, il che è lo stesso, riconoscersi nell'assenza assoluta di un progetto, fallimentari fin nel midollo, giustificati solo dall'abilità nell'abitare le proliferazioni e le contaminazioni di strutture di senso in continua rivoluzione?
Ecco: la nostra soluzione potrebbe prendere una forma intermedia, più-che-umana, meno-che-umana, nella riorganizzazione costante dello spazio simbolico.
Indagare senza condanne preconcette questo fondo informe che sempre l'umano è stato ed è, consapevoli che le ansie millenariste non aggiungeranno nè toglieranno nulla alla forma masticatoria, masturbatoria, mistificata di felicità meccanica che è la cifra del millennio che viene.
Per finire, come nella migliore tradizione, una dichiarazione di intenti. Intendiamo, d'ora in poi

1)Delimitare i bordi della trappola, la profondità della crepa.
2)Parlare del più e del meno.
3)Superare la paura, la fatica, lo schifo,

o almeno provare.

22/06/15

Post muto




 Avant-garde è rompersi le ossa contro il limite logico, oppure titillarne le frange estreme in complessi origami di vuotezza?









Boom

15/06/15

confessione

C'è una cosa che vorrei dire, forse un po' troppo sincera, ma tant'è. Se fosse il 1500 me ne andrei in piazza ad urlarla, o nel posto di una qualche azione collettiva, ritualizzata, di quelle che facevano la vita di una città (il mercato? La fonte, con le lavandaie intorno? La casa del popolo? La chiesa?) - ora, come si sa, le città tendono ad essere animali morti, purulenti, corpi cavernosi invasi di larve che sciamano in modo parassitario da dentro a fuori, da fuori a dentro. Giungla, Campo di battaglia. Impermeabile al senso.
Non mi resta dunque che scriverla qui. Compensazione povera e miserella: gettare in un crepaccio ciò che si vorrebbe esporre allo sguardo di tutti. Nascondere ciò che si ha da mostrare: la sostanza dell'ipocrisia e dell'esoterismo, da cui non può venire che male.

Egoismo: sottrarsi allo scandalo che si porta dentro, istituendo una distanza fra il pubblico e il privato, rivendicando (?!) il diritto a pensare ciò che si vuole, e a scriverlo, come se il pensare e lo scrivere fossero affari individuali, azioni che invece di dispiegare un campo di interazione lo chiudono, un guscio di concetti sull'ego, neutralizzazione masturbatoria. La pratica del pensare ciò che si vuole è pericolosa e mortifera: io penso solo e sempre ciò che devo. E quando fallisco nel fare ciò - e fallisco spesso - penso e dico ciò che non posso non dire. Non mi prendo mai la responsabilità (?!) delle mie azioni, dal momento che esse stesso sono sempre risposta, e al tempo stesso interlocuzione. L'atomizzazione della rete di rimandi che ne fa la sostanza è di per se un crimine, e solo un crimine fa il criminale, e dunque l'uomo.

Ed ecco che forse siamo più vicini a quella cosa che vorrei dire, che vorrei dire forte, come se ancora ci fosse una comunità ad ascoltarmi, il senso di esseri umani raccolti sotto un destino comune, e non la polvere di esistenze individuali tenute insieme da vaga simpatia, calcolo di interesse...
vale la pena, essere sinceri? Forse, ancora vale la pena.
In guardia, tuttavia, contro il pericolo di pensarlo come concetto primitivo, questo della sincerità. Come se vi fosse un centro lucido dell'individuo, dal quale il pensiero, la parola sgorga verso l'esterno senza disturbi nè interruzioni. Come se si potesse essere "fedeli a se stessi".
Una persona è piuttosto un fascio di desideri proiettati sulla sfera ineffabile della virtualità. Una potenza da realizzare. Eccolo, l'unico dovere, l'unica regola.

E quello che io ho da dire è: ho fallito.
Devo dirlo, devo dirlo forte e ad alta voce, perché solo il fallimento insegna, e solo attraverso esso posso dire: io so. Mentre da ogni parte il mondo è rovesciato, ed è colui che non ha fallito ad avere voce, io devo dire di me stesso: ho fallito.
Potevo fare e non ho fatto. Potevo essere e non sono.
In guardia! Non chiederti di chi è la colpa, non chiedermelo. La colpa può essere calcolata (né si darebbe il concetto, senza la possibilità di un calcolo) ma il calcolo non risponde ad alcuna esigenza vera: ti solleva solo dal pensiero che anche tu potresti fallire. Ti assolve dalla natura collettiva, complessiva, organica, sistemica del fallimento.

Il mio fallimento si chiama: potere, società, ordine. Ogni individuo deve fallire costantemente, se si vuole che una società giri in modo ordinato. Più siamo, più dobbiamo fallire. E' essenziale. L'energia risultante dei nostri tentativi frenetici è ciò che tiene in ordine e in movimento la realtà che abitiamo.
Ma questo, di certo, non ti interessa. A me per primo non interessa (più). (Di chi è la colpa?)

Essenziale è ritrovarci, al di quà del nostro fallimento, e guardandoci negli occhi decidere cosa fare della polvere di aspirazioni infantili che abbiamo grattugiato contro la superficie scabra della realtà.

09/06/15

Manifesto

Ho sempre voluto scrivere un manifesto. Alcuni dei testi più belli che io abbia mai letto sono manifesti: I manifesti del surrealismo, il manifesto del Partito Comunista, Il metamanifesto dada, che mi ha insegnato come si scrivono i manifesti:

Per lanciare un manifesto occorre:
A, B, C.
Irritarsi e affilare le ali per conquistare e diffondere tante piccole e grandi a, b, c, e firmare, gridare, bestemmiare, accomdare la prosa in forma d'ovvietà assoluta, irrefutabile, provare il proprio nonplusultra e sostenere che la novità rassomiglia alla vita come l'ultima apparizione di unacocotte prova l'esistenza di Dio. [...] Imporre il proprio A, B, C, è una cosa naturale, e perciò deplorevole

Andando di buon passo nel nostro su e giù sul dritto e rovescio del pensiero diremo che questa frase mi ha preso per la colonna vertebrale e mi ha scosso, mi ha scosso vigorosamente, mi ha scosso da cima a fondo. Ripeto: Naturale, e perciò deplorevole.

Intellettuali, artisti e hippies: smettete subito di cercare il contatto con la vostra natura. Il contatto con la natura è scivoloso, immorale, deplorevole. E' proprio dal lato della natura che siamo manipolati (vale a dire: l'idea di naturalità funziona come alibi per qualunque porcata. L'uomo è naturalmente portato a cercare la soddisfazione. L'uomo è naturalmente egoista.)
La vera arte, l'arte della paura e del desiderio, è l'arte dell'affinamento di se che fa il paio con l'essere artificiali.
Le maschere smascherano, solo ciò che farai di te stesso ti rivela. (A chi poi? Questo non è importante. Oppure lo è troppo, per questa faccenda meschina delle parole.)
Liberarsi delle proprie responsabilità è soccombere, dal momento che solo la responsabilità e il dolore ti appartengono veramente. Non il corpo: la ferita. Non la forza, lo sforzo, e il cedimento più di tutto. Eccetera.



Per lanciare un manifesto occorre: A, B, C.
Il potere travestito da natura gioca a nascondersi, rinuncia alle parole d'ordine per un ordine numerico senza parole. Si accontenta di segna-posto, di parole vuole e teste vuote. Sogna un insieme di membrane capaci di contenere e smistare corpi docili.

Qual'è il senso di un discorso che contenga delle ragioni, che proietti un ideale rapporto definito fra un Io e un Voi e un Loro? Quale verità materiale ancora resiste alla natura schiumosa dei nostri rapporti? (Io, una bolla, e tu, una bolla, e sorridimi senza venirmi troppo vicino, che ogni prossimità trascolora presto nel disgusto)
Non pretendo di farlo bene, e nemmeno di farmi capire, ma al di là dell'ipocrisia (alla quale pure occorre cedere, vivendo come si vive su una crepa, ben seduti sulla verità della quale non tolleriamo la visione) quale forma di linguaggio può ancora sollevarci dalla misera? O non sarà il silenzio? E quale offesa è più adatta a penetrare la coscienza estetica dilatata di una generazione che non crede più all'esistenza degli esseri umani?
Io e Te e Loro, o meglio il premio, la prova e il trucco. Io che devo inventare Loro per convincere Te, per essere finalmente Io (un piccolo cumulo caldo di affetto narcisistico). Altrimenti?

Il manifesto che intendo non ha un inizio ed una fine. E' il verso di un animale mitico, un ululato ininterrotto, un ruggito antiumano, la dissociazione completa del vero e del falso e di ogni idea singola. Come è ovvio, non sarei in grado di scriverlo. E' innaturale, è mostruoso, più che ogni altra cosa.



Con questa mia (lettera? Enunciazione? Lamentazione? Flusso libero? Serie di note sparse?) occupo il luogo inoccupabile di chi parla all'orizzonte vuoto, e dunque mi rendo ridicolo: le mie parole non riguardano nessuno. Dunque, probabilmente, esse sono vere. Vere nel senso in cui è vero ciò che non parla più di niente: il significante che attirerà il suo proprio significato, come un indovinello, o un koan, o un gioco iniziatico. Senza meriti né ragione, una litania da salmodiare con voce uguale sillaba dopo sillaba fino a far venire il sonno.

Non prendere sul serio la realtà. Non ti sembra buffo, tutto questo? Rimanere vivi è di per se da morire dal ridere, e ad aggirarsi per le strade c'è da rimanere esterrefatti dall'estensione dei meccanismi adattivi, di quanto siano elastici i limiti dell'autoinganno.
Non intendo: ridiamoci su. Riderci su è da stronzi cinici che si possono permettere la distanza comica dalla tragedia, o almeno si sforzano di crederlo (il che è lo stesso). Intendo: diventare matti folli schizzati alieni assolutamente estranei.

Ma no, no.
Rientriamo nei ranghi.
Ci sono pensieri buoni e rigorosi da pensare,
Storie affascinanti da raccontare.
Non si è mai soli come si pensa di essere
Né capaci di tutta la crudeltà
che ci si sente nelle budella
Eppure la realtà prude, tutta insieme, come una enorme macchia di scabbia
Ed è così che sai la differenza
Fra quella e il sogno.

24/05/15

A denti stretti

A dire la verità, sono un po' stanco di parlare di crepe, fessure, linee di frattura.
Mi sono spiegato la cosa - e l'ho spiegata anche a voi, in un post che è rimasto su questo blog un'ora sola - con il fatto che l'idea di aprire crepe, di scappare, andare fuori, è illusoria.
Poi mi sono riletto, ci ho riflettuto, ed ho cancellato ciò che avevo scritto.



Come sempre, la questione infatti non è sentirsi in trappola o liberi, impotenti od onnipotenti. Questa cosa del "Sistema" è di per sé infantile, e come la fantasia di Dio coagula una certa categoria magmatica (protezione, dominio, paura, violenza) in un oggetto mistico.
Il nemico.



Poi, nella realtà, quella fantasia non funziona.
E un po' quello il problema con le fantasie: non funzionano.
Condannarle per quello sarebbe tuttavia assurdo: perché una fantasia è il modo in cui funzioniamo noi. (O anche il modo in cui ci fanno funzionare)


Sono un po' stanco di Crepe. Perché cercare crepe è cercare di fregare un nemico che, abbiamo già deciso, è composto di tutto il resto salvo noi. E con un passaggio di mano spostarci, mentre nessuno guarda, dalla parte della soluzione. Fare la vittima, e di conseguenza fare vittime.



Penso che sia tempo di spostarsi verso future forme di emancipazione. Non ti fare fregare dalle metafore: parliamo di libero-di, non di libero-da.
Di giocare ad altri giochi, dal momento che un individuo è sempre il punto di intersezione di giochi molteplici.
Non è questione di rompere una continuità, ma di mettere in ordine i pezzi.
E' terapia del linguaggio e del pensiero, senza una sanità in vista.
Addestramento all'imprevedibile.


In pratica: il collante di qualunque cosa si chiami "sistema" è materia umana. Dunque è necessario: disimparare a seguire regole, imparare ad eseguire in tempi brevi trasformazioni emotive ed intellettuali complesse, compiere esercizi di umiliazione ed esaltazione.


E, cosa ancora più importante, compiere tutto questo in modo del tutto deliberato, e senza alcuno scopo. Nel momento in cui un calcolo strategico occupa la tua mente, hai perso.
(Nel Go si chiama Sente, avere l'iniziativa. Si tratta di sostituire la domanda fondamentale "tu cosa vuoi dalla vita" con la domanda "su quale piano intendi impiegare le tue energie, correre dei rischi, produrre i tuoi risultati")


Caro amico, cara amica, vorrei considerarti qualcosa di più di un blocco da rompere, anche se so che ad un certo punto dovrai cercare di superarti, e forse finirai per romperti da solo.
La cosa è affar tuo, e riguarda solo la tua realizzazione. Per parte mia faccio i miei migliori auguri ad ogni pezzetto di te che uscirà dal processo

(Non dimenticare che alcuni esseri umani ragionano in termini di potere: ottenere potere, accrescere potere, sottrarsi al potere. Non dimenticare che il potere non è una nozione sostanziale indipendente, ma dipende da scelte. Se ti concentri sulle tue scelte, e sull'inserirle in una matrice originale, scoprirai che il potere sugli altri e su se stessi è un'illusione dannosa, che provoca crampi mentali. Lascia che la realtà succeda.)

In ultimo: il post un po' triste di ieri lo ripubblico, qui sotto, per completezza.
Non ti fare abbattere, capita a tutti di sentirsi in trappola. E in questi tempi immateriali, quella è la trappola.


23/05/15

Fuori dai denti

Ho realizzato una cosa, amici: sono stanco di crepe.
Non ne posso più di cercare linee di frattura, di cercare cose che vadano in pezzi.
Tanto, alla fine, non è vero che da lì in fondo, da fuori, viene qualcosa.

Vuoi la verità? Non c'è un fuori.
L'hanno inventato.
Lo dondolano davanti ai nostri occhi da uno studio televisivo alla periferia di Milano. Se lo inventano al computer in un ufficetto ancora più piccolo e brutto del tuo salotto, e poi lo spalmano su uno schermo verde.
Non c'è un fuori. Lo inventano continuamente, perché sanno che la voglia di scopare mostra la corda, nel mondo sovrapopolato, e il riflesso della fuga è in crescita costante. D'altra parte il mestiere del millennio è investire sui trend dell'inconscio collettivo.

Siamo cresciuti, ormai. E possiamo rispondere, forse, ad un paio di illazioni non vere: che ci siamo ormai abituati a pensare la realtà un minuto alla volta, che rispondiamo come pesci rossi alla sollecitazione delle lucine colorate sullo schermo. Che siamo totalmente incapaci di articolare un pensiero.

Ma possiamo farlo davvero? E perché poi? A pensare per campi lunghi, a rimanere coscienti, a progettare utopie cosa si guadagna? Dopo tutto l'anestetico industriale che ha preso il posto dell'oppio dei popoli non è lì per divertimento: permette operazioni chirurgiche assai invasive, destinate a cambiare per sempre la conformazione del corpo sociale per farne costolette e macinato fine.

Hai presente Matrix? Beh, immagina di prendere la pillola rossa e di svegliarti dal sogno colorato, di svegliarti in quel baccello di plexiglass pieno di gelatina nutritiva, con i muscoli atrofizzati e cavi collegati ai principali centri nervosi. Ecco, ora immagina di rimanere lì: nessuna nave dei ribelli viene a salvarti. Non esistono, i ribelli. Resti sveglio, cosciente, a nutrire volente o nolente il sistema. Niente superpoteri, niente "conosco il kung fu". Solo un orribile stato di veglia, in un supplemento artificiale di utero, fino a venire salvato da una morte misericordiosa.

In alternativa, puoi illuderti che ci siano comunque "spazi di manovra". Che la vita di ciascuno possa essere riscattata, dedicando una porzione del proprio tempo ed energia al bene.
Nessuno te lo impedirà, è chiaro: il sistema non può essere del tutto inumano, deve mantenersi stabile.
Eppure, fratelli e sorelle, abbiamo smesso da tempo e in piena coscienza di essere umani. Le decisioni che dobbiamo prendere sono sempre più del tipo "dentro o fuori", "giusto o sbagliato", e l'ideologia ha lasciato il posto a qualcosa di talmente tiepido ed universale da passare per comune buon senso.
Ti sarà consentito essere buono nella misura in cui ciò è funzionale, o necessario al funzionamento. Mai quando risulterà dannoso, ai ben altri fini del capitale.

Vuoi salvare i gattini? Accomodati. Vuoi una giornata alla memoria delle vittime? Prego.
Vuoi svegliarti? Cazzi tuoi. Non succede niente, se ti svegli.
Solo esclusione e dolore.
La forma fenomenica della consapevolezza in questo secolo è l'impotenza e la depressione, o al limite il cinismo ipocrita. Non puoi colpire il tuo nemico: il tuo nemico non esiste. Persino pensare di avere un nemico è un lusso, che si può permettere solo qualcuno senza essere tacciato di follia e violenza.

Quindi? C'è ancora qualcosa da dire, a questo punto?
Se mi viene in mente qualcosa, sarete i primi a saperlo.
Nel frattempo: silenzio radio

Difaul.

08/05/15

C'è qualche problema, amico?



Che cos'è un problema? Dove comincia? Nel momento in cui un punto interrogativo conclude una frase? Oppure molto prima, quando un vago prurito invade la coscienza, costringendola ad orbitare sempre più spesso intorno ad un punto cieco, fino a che l'incoerenza non trova la sua strada attraverso il linguaggio, e diventa una domanda (una specifica fra le tante domande che potrebbe indifferentemente diventare)

Che cos'è un problema? Una disfunzione? L'assenza di un obiettivo? Qualunque cosa costringa un essere vivente a muoversi? Quale definizione ne darà lo spettro pieno?

Un famoso personaggio di un film molto amato si presentava dicendo: "Sono Wolf, risolvo problemi". Non è forse vero di ciascuno di noi? Non è forse altrettanto vero l'esatto contrario, che ognuno di noi non fa che produrre incessantemente problemi, e innanzitutto il problema costituito per ciascuno dalla propria esistenza individuale?



Per qualche motivo, sembra che molte poche persone si fermino a considerare che cos'è un problema, di questi tempi. Molte più persone sembrano impegnate a trovare problemi e risolvere problemi. Propri od altrui. Il concetto stesso di problema, problematicità eccetera è sottoposto ad un tale superlavoro che è straordinario come riesca ancora a reggere. Al di sotto di una opacità necessaria, esso comprende territori alieni gli uni agli altri, autorizza - nella forma di un etimema efficacissimo - una circolazione inedita di senso.

Tanto più interessante risulta la serie dei luoghi comuni relativi al concetto di problema.
In primo luogo: la correlazione problema-soluzione. In questo senso, un problema è una deviazione, una malformazione, uno sviluppo aberrante, l'esito di un errore. La correzione del problema permetterà il ristabilirsi di una normalità serena e funzionale.
(L'attività umana nel suo insieme può essere vista come una progressiva eliminazione di problemi tendente alla beatitudine, a patto che si sia disposti ad accettare come articolo di fede la felicità come stato archetipico primigenio, autenticamente umano e recuperabile attraverso correzioni dell'esistente.)

In secondo luogo: la correlazione di un problema con una certa zona della realtà. Questo è un mio problema, un tuo problema, un nostro problema eccetera. Ad ognuno, in questo senso, spettano di diritto (e di dovere) alcuni problemi e non altri.



Le due osservazioni di cui sopra bastano a definire in maniera grossolana una contraddizione cardine: il fatto che un problema sia una deviazione dalla norma, da un procedere altrimenti indisturbato degli eventi, implica che vi sia in effetti una norma da ristabilire. Basterà eliminare qualcosa - la dieta a base di carne? Il capitalismo avanzato? Le scie chimiche? Il vizio del fumo? I gufi? I Black Block? I poveri? - e il resto tornerà a funzionare.

Dall'altro lato, la specificità geografica che assegna ad ogni problema un suo spazio, e ad ogni spazio i suoi problemi può essere interpretato in due modi:
1) i problemi hanno estensioni differenti, ciò che per me costituisce un problema è assolutamente irrilevante dal tuo punto di vista (non costituisce un problema).
2) L'attuale stato di cose è caratterizzabile come problema solo a partire dagli effetti che ha in un certo luogo, o relativamente ad un certo punto di osservazione. Una prospettiva diversamente localizzata, tuttavia, può individuare quello stesso stato di cose come l'assenza di un problema.

Immagina uno stato florido, che importa merci prodotte a bassissimo costo in un altro paese, ed esporta rifiuti da seppellire a basso costo nello stesso paese. Tale stato florido vive una normalità localizzata, a spese altrui. Il paese nel quale i sindacati sono crudelmente repressi e l'acqua avvelenata, allo stesso tempo, ha un problema. Il primo paese, quello florido, afferma per bocca dei propri rappresentanti di volere (e dunque potere) risolvere il problema: dopo tutto, basta osservare il paese florido per convincersi che i suoi abitanti, che hanno raggiunto una certa felicità e una normale e pacifica esistenza, hanno ben saputo risolvere i loro problemi.
Vedi la contraddizione? Dove inizia il problema? Che cos'è un problema?

Non essere ingenuo: un problema non è una cosa, che può essere eliminata o delimitata, è quì, è lì. Un problema è un particolare modo di relazione fra un essere vivente ed il suo intorno - formato da altri esseri viventi.

Nel caso in cui un mio problema sia risolvibile solo al costo della creazione di un problema per te, i nostri sforzi per la trasformazione della realtà andranno in direzioni diverse. Questo io lo chiamo: avere un nemico. Il genere di interazione che si verifica in questo caso è di necessità violento: di una violenza più o meno dichiarata, più o meno sublimata, più o meno istituzionale, ad ogni modo necessaria.