23/11/14

Cul de sac

Oggi la porzione di cielo che si vede dalla mia finestra è bianco, lattiginoso. Non è una situazione rara, in questa bellissima città postindustriale di gente educata e gentile. Ma il sottoscritto, tutt'altro che autoctono e uomo d'altura, mal sopporta questo orizzonte sciropposo, monotono, malaticcio, malinconico e così via. Non sopporta la sciatteria delle forme cubiche dei palazzi che si susseguono strato su strato fino a sparire nella nebbia, i viali illuminati dai neon come gallerie nell'aria umida e opaca. Il senso di incompiuta, di immobilità


Va anche detto, tuttavia, che questo senso di incompiutezza, molle ottundimento, scoraggiante monotonia il povero Difaul non li apprende dalla nebbia, e nemmeno li può imputare all'architettura, o alla conformazione geografica dei posti. Come è tipico dei megalomani, dei narcisi e dei consumatori in genere, tutto quello che il giovane Difaul fa è riversare sull'apparenza del di fuori la verità del di dentro. Se questo è vero, bisognerà ammettere una volta per tutte che non c'è città che valga quanto questa, per far sorgere infine l'orrore del proprio degrado e decadimento, per generare una (qualunque) reazione. E che certi dispositivi estetici del romanticismo non hanno mai smesso di funzionare, anche se oggi ci tocca sempre e solo riproporli in forma derisoria.


Mi sentivo dunque assalito da quella forma blanda di depressione immotivabile che assale di tanto in tanto gli studenti, i disoccupati, gli imprenditori, le casalinghe e la gente in genere, soprattutto di recente. Quella forma di disperazione infantile, accompagnata dal senso di ingiustizia e dallo spettro inaccettabile di una colpa, mi spingeva a lunghe passeggiate nello scenario desolante. Incontrando occasionali ombre, figure umane nella nebbia, provavo lampi brucianti d'odio immotivato. Affondavo allora i pugni ben a fondo nelle tasche, e li stringevo fino a far entrare le unghie nei palmi (costellati ormai da mesi di piccole lune rosse).



Forse ad alcuni di voi, spero pochi, è familiare questa sensazione: nulla c'è da fare, eppure qualcosa di fondamentale manca. Forse - articola il cervello - ciò che doveva essere fatto non è stato fatto, ed ormai è troppo tardi. Forse qualcun altro doveva farlo. Forse si è semplicemente troppo stupidi per capire. L'esistenza umana individuale e le sue giustificazioni narrative sembrano un giocattolo rotto: la crepa è tanto profonda da replicarsi identica fra gli individui e fra i concetti.

Il post di oggi, dunque, è dedicato a questo: a quel momento in cui un'incoerenza minaccia non le strutture di un sistema, organizzazione coesa di sforzi umani, o di un linguaggio, pratica convergente di segni mobili, ma l'unità funzionale di una psiche.
Immediatamente prima di affrontare il punto mettiamo le mani avanti: Difaul non è psicologo, non è psicanalista né terapeuta. Questo ha due conseguenze. Uno: lavoro gratis. Due: non sono convinto che il fuoco del problema stia al livello dell'individuo.

"Dilettante"

Si tratta di un pensiero tutto sommato semplice, al quale tuttavia l'intelletto contemporaneo rimane abbastanza impermeabile. Se l'essere umano non è - come non è - isolato dagli altri, e può sopravvivere solo in forza di una molteplicità di relazioni nelle quali si inserisce "naturalmente", come si può pensare di curarne lo psichismo individuale? Lo psichismo individuale è il riflesso, l'orma di un ambiente sulla superficie dell'umano, un sistema di proiezioni, contestualizzazioni, simbolizzazioni e storicizzazioni che comprendono e decidono sempre di uno spazio relazionale del quale l'individuo non è che un margine, un polo.



Basta, questa considerazione a fare una teoria? E' ovvio che no. D'altra parte, come abbiamo detto anche prima, per fare teoria ci sono i libri. Qui vorrei solo dirvi ciò che nessuno mi ha detto, e che io avrei tanto voluto sentirmi dire, a un certo punto, prima di piazzare una serie patologica di investimenti libidici, di perdere tutto, di lasciarmi andare all'autocommiserazione, di immiserirmi e mollare. Vorrei dirvi che non è colpa vostra. Che esistono - esistono! - individui il cui narcisismo è l'unica alternativa all'autodistruzione, e l'individualismo metodologico è il modo in cui possono continuare a pensare di meritare ciò che hanno ereditato dai modi convettivi di un mondo ad irrazionalità crescente. E che la tua depressione, il tuo senso di sconfitta, deriva dall'assunzione speculare di responsabilità per la vita di merda che fai.



Dovresti invidiare il servo della gleba (e già lo si fa, nella forma ironica di chi aggira il proprio super-io capitalista). Perché egli era soggetto di sfruttamento brutale per volere di dio. Non meritava nulla, e nulla avrebbe mai dovuto meritare. Dovunque facesse passare la costruzione di una personalità (devozioni in odore di paganesimo o di eresia, culti privati, affetti familiari allargati...) nessuno se ne sarebbe occupato. Lui era un'uomo oppresso. Tu un burattino: il tuo processo di soggettivazione è interamente controllato. Il fatto che tu non esista indipendentemente dall'apparato che ti sfrutta è segnato dal senso di colpa che ti prende quando esisti senza lavorare.



Il capitale non è una somma, né una collezione di roba. Il capitale è una serie di rapporti sociali ed economici, il cui peso psichico è stato troppo a lungo trascurato: esso determina la follia del proletario e del disoccupato, e la follia uguale e contraria (ma ospitalizzata, quantomeno) del ricco e del padrone. Ad ognuno degli spostamenti, degli aggiustamenti, dei miglioramenti, delle innovazioni del nostro bel mondo contemporaneo, tecnocratico ed occidentale corrisponde un aumento del rimosso. Ormai l'isteria striscia dietro ogni angolo, ed inscrive i suoi toni ovunque. L'euforia isterica di chi ha successo eguagliata solo dall'odio isterico di chi non ce l'ha, e a questa diade va ricondotta ogni dialettica umana.



Così la vita stessa - la vita dell'individuo come la vita politica della società e dei gruppi che la percorrono - si rinsecchisce, indurisce. L'adattamento non è un obbligo, ma una qualità. L'obbedienza non è un obiettivo del potere, ma un prerequisito dell'esistenza. I miei coetanei, lungi dal diventare il germe di una nuova cultura, di un nuovo giornalismo, di un nuovo mondo (come vorrebbe il lamento senescente e paternalista della stampa generalista) stanno imparando a trasformarsi: si trasformano nel più stolido e retrogrado degli eserciti della reazione. Così va il mondo: si spiano l'un l'altro, si denunciano al potere costituito, sperano in un passo falso. La disperazione li spinge al salto di fede: si mettono interamente in mano a maestri, genitori, padroni. Non osano nulla, non osano mai. (Osare cosa, poi? E perché?)



Quello che voglio dirvi, prima che sia troppo tardi per dirvelo, che lo scopriate da soli, è semplice. Non è colpa vostra se siete infelici. Il mondo così com'è produce infelicità. Si nutre di desiderio frustrato, di ansie, di insicurezze. E' normale essere infelici, indipendentemente da dove, come o con chi.
Per contro: non è impossibile essere felici. Anzi, essere felici è molto facile. Basta essere felici. In generale, non fidarti di chi prospetta il raggiungimento della felicità alla fine di un lungo lavoro di auto-costruzione, auto-formazione, auto-controllo eccetera. La felicità non ha a che fare con il controllo. Non serve essere intelligenti, forti e belli per essere felici.
La tua intelligenza, la tua forza, la tua bellezza non sono qualità. Non ti definiscono. Non li avrai da morto, e probabilmente nemmeno da vecchio. Non curartene come fossero meriti o decorazioni: usali. Possibilmente, usali per il bene.



11/11/14

Teoria pratica

Esistono infiniti modi di sapere qualcosa. Se si volesse compiere una ricognizione delle serie ordinate di riflessi e stati interni implicate dal conoscere, dal ricordarsi, dall'immaginare essa risulterebbe probabilmente in un catalogo infinitamente infinito.



E' dunque perfettamente comprensibile che di tanto in tanto l'essere umano si stanchi di stendere cataloghi, e si soffermi a pensare che in fondo il suo "dentro", inteso come misura comprendente la coscienza e l'inconscio, eccede per la quantità e la qualità dei contenuti attualmente o virtualmente possibili la ricchezza stessa del modello, che potrebbe essere dunque lo spirito a creare la realtà, e che il vincolo tenue fra la vita interiore e la "realtà esterna" non è che un pretesto, una narrativa consolatoria.



Il senso nel quale oggi si intende, innanzitutto e perlopiù, l'esercizio di formazione di una coscienza non segue tuttavia questa linea introflessa di indagine della memoria e del se, esercizio di concentrazione e decentramento che abitua al vuoto dei riferimenti e all'oscillazione fra istanze virtuali e scenari possibili.
Piuttosto, lo sforzo del farsi riguarda una attività che, se procede dalla coscienza, deve però farsi valere nella realtà. Il potere della coscienza non è un fantasma psicologico che procede dall'esplorazione dell'interiorità, ma il parametro perché si possa dire che essa esiste. Benché la società contemporanea possa senz'altro affermare di macinare più immagini e più ricordi, più dati e più realtà di ogni altra società nella storia, essa non si fida più di ciò che manipola, né della propria capacità di ricostruire l'ordine narrativo. Tali materiali hanno perso la capacità di ordinarsi da se secondo un senso complessivo mentre noi perdevamo l'abilità di sopportarne la confusione. La loro ricchezza non serve a sorprendere la coscienza: l'uomo contemporaneo non ha mai provato lo stupore di un parigino all'esposizione universale. La tecnica, che inscrive la sua fisionomia nel contesto e scompare, passando sotto la traccia dell'osservazione degli eventi, dando vita a storie sepolte e collaterali dell'attività umana, è sopravvissuta all'esaltazione positivista, alle simbolizzazioni di guerra e terrore, all'attribuzione di valore politico. Essa ha gradualmente seppellito i linguaggi dei quali all'inizio si era nutrita, e quelli che le stavano appesi in forma parassitaria, ed aspira a tradursi da se.



Qual'è la forma contemporanea di un tale sforzo? Quali ne sono le strategie? Quali le empasse? Una teoria del senso nell'età contemporanea assomiglia allo sforzo futile dell'agrimensore su un campo di battaglia: come a proposito del nesso mobile e pericolante (nonché pericoloso) fra cultura e creatività, siamo di fronte ai poli di una tensione che non si risolve in equilibrio, ed è destinata a divorare sia chi la ignora scientemente, sia chi si illude di conoscerla e costruisce il campo dei suoi esercizi teoretici su una crepa. Tuttavia, ciò non costituisce un problema esplicito per chi si assume il compito non di comprendere la realtà complessa, ma di gestirne la complessità.



Come può la tecnica tradursi da se? E in che cosa dovrebbe poi tradursi? E possiamo ancora chiamare l'operazione che vogliamo designare una traduzione? Tali questioni nascondono l'insicurezza di chi voglia applicare un sapere ermeneutico all'uso che si fa oggi dei codici. "La comprensione non ci interessa", è l'affermazione sottintesa ad ogni analisi contemporanea: abbiamo padroneggiato la formazione del senso nella mente, sappiamo cos'è un frame ed una prospettiva, sappiamo presentare una realtà (vale a dire costituirla, non fornirne una rappresentazione che rimanda ad un originale esterno capace sempre di tornare a metterla in discussione). Dunque il problema della comprensione semplicemente non si pone, o si pone al contrario: voglio sapere che cosa riesco a farti capire, nel senso specifico che comprende le possibilità e le restrizioni operative che l'esposizione ad una serie significante produce, sia le modalità per rendere tale spettro controllabile ed univoco. Il maestro zen (e alcune specie di filosofi) potevano accontentarsi di indicare la porta, lasciando all'allievo la decisione e l'atto di attraversare la soglia. L'intellettuale contemporaneo deve esercitare un potere ben maggiore: portare l'audience fino a dentro il supermercato e mettergli in mano il fustino di ammorbidente. Suscitare la reazione desiderata. In questo senso la traduzione della tecnica in realtà assume la forma dell'iscrizione di desideri e tabù sulla carne, e impone allo stesso tempo la padronanza e la distanza "professionale" dai materiali che si maneggiano.



Eppure, al di sotto della sicumera delle tecniche della comunicazione (che sarebbe meglio chiamare tecniche del significato) si muove una inquietudine che raddoppia e moltiplica quella del filosofo (o ermeneuta) spiazzato. La potenza ed il controllo non ammontano ad una rappresentazione. A scapito della tecnica e del suo andamento procedurale, una serie di eventualità vanno tenute in conto: i mutamenti e gli eventi, le intensità mobili del reale si riprendono talvolta la loro infantile rivincita frustrando i tentativi di controllo. A questi insuccessi, la moderna tecnica del linguaggio non può opporre la consapevolezza della complessità, dal momento che è stata portata a negarla retoricamente proprio nell'atto fondativo in cui ha iniziato il suo discorso. Là, diremmo noi, si aprono crepe.



Proprio la nostra metafora-cardine ci descrive quindi "come va a finire" ogni contraddizione che apra buchi nella cultura - e forse si potrebbe addirittura parlare di semiosfera, non fosse che azioni ed eventi vengono a farne parte. Inizialmente, la tensione di uno sforzo sostenuto da un potere (una istituzione o disciplina che giustifica la trasformazione del reale) apre discontinuità ed incoerenze rispetto a quelle silenziose continuità di pratiche e significazioni che sostenevano l'intelligibilità reciproca e collettiva dei comportamenti umani. In un secondo momento, tali segni e pratiche vengono inghiottite dal vuoto che si è così aperto. In tal modo si perde di solidità e solidarietà (psichica, sociale, politica), ma si apre una "direzione ulteriore": mancando al suo posto, il linguaggio tecnicizzato (appropriato da una ratio eterogenea) apre di fatto la possibilità e lo spazio di una riorganizzazione profonda. Ciò che si deposita sul fondo fermenta, piuttosto che crescere, e a volte imputridisce. Un terzo stadio, ancora da verificarsi, è quello nel quale l'accumulazione di una realtà che non è mai stata concretamente negata, ma solo rimossa dalle trasformazioni del regime di discorso, escluso dalla struttura secondo la quale esso si ripartisce, riemerge alla superficie sviluppando una energia tellurica tale da scompaginare una volta per tutte le disposizioni di senso invalse.



La questione è dunque duplice: da un lato il linguaggio che è organo umano - e in quanto tale rivendica uno statuto che si oppone nettamente a quello dello "strumento", secondo una retorica che è onnipresente sia in ambito mediatico che accademico. Dall'altro il linguaggio che rimanda organicamente ad altro, una volta trasformato in oggetto proprio di una tecnica, è idealmente amputato dalle connessioni necessarie che intrattiene con il "resto" dell'umano (a sua volta, ogni ambito di tale resto è oggetto di una tecnica specifica). Il termine "idealmente" ha tuttavia una rilevanza decisiva: in concreto, la sintomatologia del presente si arricchisce di giorno in giorno di disagi che non sono solo effetto di parametri economici concreti, ma anche di gravi scompensi della capacità di soggettivazione individuale e collettiva.