22/10/14

Conseguenze del cinismo

Comincio a pensare che quella di "crepe" sia una categoria pericolosa, destinata a sbriciolarmisi fra le mani. Il che non sarebbe male, anzi, servirebbe a mostrare una volta di più l'azione decisiva delle metafore inscritte nei concetti, la varietà di operazioni inconsce che tali metafore inducono nel pensiero, nonché l'importanza del momento mimetico, esplicito nel creparsi della nozione di crepa.


Per voi e me sarebbe tutto sommato triste. Per me significherebbe l'afasia (e in parte è già successo). Per voi la fatica di scegliersi un altro blog da leggere, oppure la condanna alla vita vera.
Proviamo dunque a rimettere in ordine i nostri pezzi. Siccome la via analitica ci è preclusa (è tutt'altra questione individuare "oggetti" del pensiero e "fratture del pensiero", specificatamente perché i primi si lasciano prendere e le seconde prendono noi) procediamo alla spicciolata, strategicamente ingenui, secondo il paradigma del "finto tonto", e perciò in maniera provocatoria.
Ora dunque dimentichiamo tutto, e facciamo finta che io stia parlando di me.



L'altro giorno ero davanti ad un noto e non tanto nuovo palazzo torinese, e temporeggiavo di fronte agli impegni di una esistenza forsennatamente vuota. Temporeggiare, come è noto, è una attività collettiva, e la conversazione in quel momento verteva sui cosiddetti "tempi moderni", quando ad un certo punto uno di noi se ne esce con la domanda del millennio:

"Ma tu ci credi ancora alla rivoluzione?"

Fortunatamente, la domanda non è rivolta a me. Mi fa ad ogni modo sbiancare e sudare freddo. (non si può stare mai tranquilli, mai.) In un secondo tempo, come di solito, mi siedo in un angolo polveroso di un androne e ci penso su. Un mare in tempesta di contraddizioni mi corre incontro ghignando. Come ogni individuo beneducato dalla generazione di Amleto in poi, fortunatamente, so che vi sono due condotte possibili in tale situazione: costringere le contraddizioni a mettersi in fila, ed affrontarle l'una dopo l'altra fino ad esaurimento delle contraddizioni o della forza residua, oppure affrontare una torsione decisa dello spazio problematico concepito nella sua totalità (e con il vostro povero Difaul preso in mezzo ad esso). Nel primo caso, si rischia di non finire mai, nel secondo caso si rischia e basta. Vi è già, in questa scelta, la matrice della differenza fra un agire giuridico-processuale ed un agire rivoluzionario.



Dovrei dirvi a questo punto quale scelta ho compiuto, e cosa ne ho ricavato. Eppure credo possa essere di maggior interesse un punto di vista fittizio, più generale e diffuso del mio. Bisognerebbe occuparsi non di ciò che mi fa rispondere, ma di ciò che ci fa ancora domandare. Non il mio "credo", che in fondo si risolve in se ed è buono a nulla, deve essere interrogato, ma la necessità di un fantasma rivoluzionario che ossessivamente ricompare, e nel moltiplicarsi della porosità dello spazio semiotico che occupiamo si intravede lacero e confuso e tuttavia sorridente fare capolino da ogni dove, per poi ritrarsi.
Per rendere evidente ciò che voglio dire, vale la pena considerare il ruolo che in tale fenomeno gioca la confusione fra la linea di fatto (credo sia possibile una rivoluzione) e la linea di principio (credo sia necessaria una rivoluzione).

Dunque, senza credere e senza sperare alcunché, diamoci qualche minuto per riflettere su un particolare tipo di doppio vincolo, una crepa speciale e deliziosa nella quale molti di noi affondano fino alle ginocchia: nello specifico quello che succede quando si crede che una rivoluzione sia necessaria, e tuttavia non possibile.


Per fare un passo avanti, dunque, dobbiamo farne due indietro (in due direzioni diverse, per di più). In primo luogo, ripassare l'economia psichica della rivoluzione. Per limitarci all'Abbiccì, diciamo soltanto che la rivoluzione è un evento mitico: essa spalanca di fronte a se una virtualità che si annuncia come tale nel segno del rovesciamento, e che coincide con una temporalità concreta da farsi.
Vale a dire: la rivoluzione è il termine di un'epoca e l'inaugurarsi di un'epoca nuova. La si presenta in genere come passaggio dall'inautentico all'autentico, in termini variabili ed oscillanti (dalla condizione umana alla natura dei rapporti fra individui, allo statuto dei rapporti di produzione).

Perché la rivoluzione abbia successo, deve verificarsi un certo grado di maturazione di forze che, interne ad un sistema iniquo, premono per un rovesciamento di questo. Ogni vero rivoluzionario non va in cerca di crepe, ma di assi intorno ai quali la realtà stessa potrebbe (dovrebbe) capovolgersi. Più il sistema di assi individuato è semplice, più il ruolo del catalizzatore è netto, più la rivoluzione è giusta, pulita ed ha successo.
Ricordate la scena di V per vendetta in cui V (un prototipo di rivoluzionario del quale poi si parlerà) fa cadere una tessera di un immenso domino? Ecco: nello stesso esatto modo si svolge poi la sua rivoluzione. Con un tocco delicato (o una serie di assassinii) si compie il primo movimento di una reazione a catena, una valanga capace di travolgere tutto.



In tali casi, uno stato metastabile (ma ordinato) collassa attraverso una fase di meraviglioso caos catartico verso un altro stato ordinato, questa volta stabile (perché fondato sulla rivelata autenticità dell'essere umano).

Al contrario, più il processo è "sporco", più la società - per quanto falsa e iniqua - è stabile e inamovibile, più è difficile pensarla come un insieme contraddittorio, instabile, destinato (secondo una sorta di legge che per quanto materializzata rimane spirituale) a collassare per divenire il regno della verità (o per realizzare il vostro ideale emancipativo, qualunque esso sia).
Per rendere conto del presente, tuttavia, dobbiamo ricordare che vi è un caso addirittura più pernicioso di quello di un solidissimo status quo gerarchico e conformista, per il rivoluzionario. Si tratta del caso in cui fra la città del demonio e la città di Dio (o fra la città del capitale e quella dell'essere umano) si instauri un sistema di coesistenze e dipendenze e mutue compensazioni che rendono impossibile il rovesciamento. Rimane allora spazio tutt'al più una serie di movimenti collosi, insoddisfacenti e frustranti. Ci si perde nella continua difesa del proprio equilibrio mentale, una serie di gesti di piccolo cabotaggio vanificati ben presto dai moti convettivi e conservativi di quella realtà che non è una grande menzogna da venire sbugiardata, e nemmeno una grande verità nella quale gioire, ma una massa di simboli privi di senso, se non un senso parziale, limitato, individuale.


Se la realtà non è stabile, solida e rovesciabile, ma fa dell'instabilità la propria cifra e la propria aspirazione, ognuno dei movimenti che vi si rendono possibili non può mirare al rovesciamento, e viene presto riassorbito. La rivoluzione ne risulta altrettanto frustrata: essa dipende da un tipo speciale di movimento che si definisce per alterità rispetto al falso equilibrio precedente, e per la sua capacità di produrre un reale equilibrio a venire. Come adeguarla al moto convettivo inarrestabile della contemporaneità? Di qui lo sconforto.


Possiamo dire che la grande retorica della fluidità sociale, politica, emozionale eccetera elimini la necessità di una rivoluzione? No. Dice solo che forse essa non ci sarà mai. Come davanti alla morte di Dio (che non si riduce all' assenza di Dio), ci troviamo di fronte ad una scollatura di esigenze fondamentali. Kant aveva indicato come la coincidenza all'infinito (e dunque metafisicamente proiettata) degli interrogativi "cosa devo fare" e "cosa mi è lecito sperare" fosse essenziale alla serenità di spirito. Nel momento in cui il nostro tempo non ci appartiene (né nella forma di una virtualità da progettare, né nella forma di una eventualità dalla quale attendere risposte), non ci possiamo permettere un "devo" che non sia riferito alle più ristrette realtà abitabili (devo pur mangiare). Non ci possiamo più permettere l'essere umani, che a costo di fragilità estreme e profondissimi complessi.


Aprire crepe è forse futile: dopo il crollo non resterà un dentro né un fuori né una tabula rasa. Solo una nuova e migliore possibilità speculativa.
Eppure abbiamo già detto: il doppio vincolo è quando non si può accettare, né rinunciare, né fallire. L'uscita dal doppio vincolo non esiste, e se esiste è dolorosa.

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