25/09/14

Cultura e disboscamento

Esiste una profonda crepa fra il concetto di cultura e le pratiche che oggi si raccolgono sotto il termine.
A prenderne sul serio l'etimologia, il concetto di cultura è uno fra i più fertili: in esso si conservano sotto la forma di una metafora erosa dal tempo, intuizioni importanti: ciò che si coltiva, ciò che cresce, a partire dall'humus di una terra fertile, con le dovute attenzioni e l'appropriata pazienza. La forma vegetale, fra tutte, sembra la più appropriata a rendere conto di determinate forme di identità non banale, collettiva, stratificata, che continua a trarre nutrimento dal suolo e forza dal sole - e le implicazioni metaforiche di tali termini sono lasciate da determinare al lettore, con l'avvertenza che egli non riuscirà probabilmente ad esaurirle nel corso di una vita lunga e fortunata.


Quello che salta agli occhi, quando si sente parlare di cultura di questi tempi, è la costante, ovvia, sfrontata irrisione di tali significati residui. La sintassi contemporanea consegna la cultura a metafore molto meno allusive: sembra ormai, a sentir parlare ministri e specialisti dei "beni culturali" che ci troviamo su terreno secco, esausto, e che ormai da tempo tutto ciò che c'è da raccogliere sia stato raccolto e trasferito in enormi granai. L'unico mestiere accreditato, dimenticato ormai quello del "cultore" è quello del "curatore", vale a dire del guardiano del granaio.
Fino a qui, tuttavia, si rimane all'interno di una diagnostica nemmeno troppo nuova di quella "sindrome dell'archivio" - capace di diventare, nel caso di giornalisti/imprenditori/opinionisti abbastanza spregiudicati "sindrome dell'oro nero" - i cui tratti fondamentali sono presto detti:

1) la cultura è eterna (dell'antico non si percepisce più il movimento. Figurarsi il modo in cui trapassa nel presente)

2) la cultura è compiuta (in fondo, tutto ciò che è contemporaneo è cultura solo in senso derivato o deteriore)

3) la cultura è una risorsa (il "petrolio italiano", da usare per "attrarre turismo")

In questo modo, un triplo movimento trasforma la cultura - ciò che è coltivato e quindi cresce - in un valore che ha il carattere di essere monetizzabile (tramite il turismo e gli eventi culturali), stabile (i valori culturali sono eterni) e immutabile (non ci possono essere nuovi valori culturali. Al massimo, altra cultura da aggiungere alla vecchia, ma sostanzialmente omogenea ad essa per uso e destinazione)



Il carattere temporale è particolarmente spiccato: da processo ciclico, naturale (solo parzialmente conscio e controllabile, come nell'espressione: "mi è venuta un idea") a sfruttamento forzoso artificiale di un accumulo precedente, che si immagina stabile ed inesauribile.
Se volessimo esercitare un po' l'immaginazione, potremmo immaginare che quel petrolio che i nostri esperti si occupano di estrarre sia esattamente ciò che rimane di forme vegetali un tempo floride. Che una metafora profonda stia scavando sotto le parole imprudenti, avvertendoci di qualcosa: che la cultura è morta, ed anzi, deve essere morta perchè possiamo parlarne come ne parliamo, come una forma oggettificata estranea agli esseri umani.



Ad ogni modo, come dicevamo, si resta con tutto ciò dentro una sintomatologia ben nota, alla quale è forse il caso di aggiungere qualcosa. E per aggiungervi qualcosa, per rendere ben visibile la crepa, è necessario considerare il concetto di "creatività".
Si tratta di un termine assai inflazionato, ubiquo. Dalla finanza creativa, ai mestieri creativi, ogni cosa intorno a noi sembra essere, o dover essere, matrice di una qualche creazione.

Va notato che si tratta di un termine spicciolo: nessuno crea nulla, ormai, ovvero nulla di veramente nuovo, per il quale occorra una qualche profonda metamorfosi del reale. "Creativo" si riferisce perlopiù - come ha fatto notare Paolo Vignola di recente in un suo libro - a cambiamenti minimi. Una nuova carta da parati "creativa", una mozzarella "creativa", l'utilizzo "creativo" di uno scovolino. Il creativo, invece, nella forma sostantivata, è riassumendo al massimo colui che sostituisce l'intellettuale e l'uomo di cultura: ovvero colui che detta parole d'ordine e ridefinisce la realtà. Vale a dire, nella stragrande maggioranza dei casi, l'uomo della pubblicità.

...e toccano vette di hybris inimmaginabili (vedi didascalia precedente)

Il sorgere dei creativi, e della creatività - questa virtù quasi innata che 1) abbiamo tutti 2) si presta a tutti gli usi e ci mette in grado di fare qualunque cosa - non è cosa nuova. Tuttavia, non se ne sono forse considerati abbastanza a fondo gli effetti. In particolare, non attraverso la rivelatrice opposizione al concetto di cultura:

Laddove la cultura è ciclica, ha una durata e dei ritmi da rispettare - e il suo senso deteriore la immobilizza in un deposito - la creatività è istantanea. Laddove la cultura è faticosa, la creatività è facile. Laddove la cultura ha bisogno di suolo ed aria e sole per dare frutti, la creatività semplicemente crea. Tira fuori qualcosa dal nulla.



Non c'è bisogno di essere esperti per vedere che qualcosa manca all'appello, che una tale metamorfosi dell'umano non può intervenire in appena cento anni di evoluzione o poco meno.
La mia idea, maturata - tiè - a lungo, è che la creatività sia un furto, una modalità predatrice che occupa secondo modalità differenti lo stesso esatto spazio della cultura. Che sia un'illusione ubriacante, una democratizzazione impossibile e dunque insincera del pensiero, la concretizzazione dell'ideale alchemico della creazione di oro dal piombo.
Solo che, in fondo, il piombo è materia inerte, e l'unico modo di farlo diventare oro è venderlo per oro a qualche credulone. Un incolto, appunto.



Prima che mi prendiate per retrogrado, tuttavia, devo dichiarare che non trovo questa truffa "uno scandalo dei tempi moderni". In realtà assomiglia più ad un ritorno all'antico.
Prima di coltivare, infatti, tribù di esseri umani percorrevano la terra predando le risorse disponibili, incontrastati padroni grazie alle prime invenzioni, approfittando della crescita secolare di flora e fauna per il proprio nutrimento, senza sapere come essi venissero ad essere se non in una lontana forma mitica.
Solo in un secondo tempo la rivoluzione neolitica ci mise in condizione di stanziarci, coltivare (e dunque coltivarci). Quello che i creativi di oggi fanno, è un ritorno al pre-neolitico. La velocità degli scambi e della comunicazione gli permette di muoversi nella complessità predando con mezzi assolutamente rozzi ciò che si è sviluppato in decenni e secoli. Lasciando terra bruciata, sfruttano le debolezze scientificamente individuate di una psiche collettiva nella quale non sanno più riconoscersi. Vi aprono crepe. E si illudono che essa "ricrescerà" per farsi di nuovo predare. Il che potrebbe succedere.



Oppure no.

24/09/14

Metalogo

M: Buongiorno, Difaul

D: Ciao, M.

M: E' un pezzo che non ci vediamo

D: Direi di si... almeno cinque-sei settimane, no?

M: Non saprei. Da quando siamo andati a picchiare L. Ad ogni modo, è un piacere rivederti.

D: Idem. Mi ero un po' stancato di parlare da solo.

M: Non sapevo parlassi da solo

D: Invece lo faccio. In un certo qual senso lo sto facendo anche adesso. Però ora lo faccio fingendo di non farlo, mentre in genere parlo da solo e basta.

M: Non è una cosa insolita. Nemmeno del tutto normale, però.

D: Dipende da cosa intendi

M: Per favore, non entriamo un altra volta in quel discorso sulla normalità. Sai benissimo come è finita l'ultima volta

D: Non è stata colpa mia. Certi buchi neri sono inevitabili.

M: Questa è tutta una questione di punti di vista. Dovresti ripassare la nozione di "tatto".

D: Va bene. Ad ogni modo: di cosa volevi parlarmi?

M: Non lo so. Sei tu che stai usando il trucco del dialogo fittizio per non usare quello della divagazione continua

D: Come lo sai?

M: Vuoi davvero continuare con questo pseudo-interrogatorio? Sai benissimo come finirebbe. E abbiamo già chiarito la situazione abbastanza. C'è una sola tastiera, dieci sole dita, e l'opposizione di due lettere maiuscole non basta a trasformare in un vero dialogo un soliloquio.

D: Ma non è tutta la letteratura un soliloquio? Non si può dire che ogni grande autore "parla da solo"?

M: No. Sarebbe più corretto dire che ogni autore è moltitudine. E comunque: sarebbe carino se non facessi l'ingenuo.

D: L'hai detto tu stesso. Per scrivere compiutamente bisogna moltiplicarsi. Per moltiplicarsi, bisogna dividersi, dacché ciascuna delle voci non potrà più pretendere di rappresentare la totalità. Dunque, per ottenere un certo tipo di onestà non c'è che essere disonesti. O meglio, ingenui in mala fede. L'ha detto Oscar Wilde.

M: "La decadenza della menzogna". Un bel libro.

D: Esatto. Ad ogni modo, ora che abbiamo ridotto la sospensione dell'incredulità ad un colabrodo, puoi anche dirmelo: perché sei qui?

M: Per fare il punto. Che altro?

D: Sapevo che ci saremmo arrivati, prima o poi.

M: Già. Comincio?

D: Comincia

M: Ricapitolando: Hai aperto un blog discettando sul fatto che forse ti sentivi un po' in colpa per aver aperto un blog. Hai speso diversi post a spiegare il perché e percome e l'intenzione generale. Corretto?

D: Si, in sostanza. Era per rompere il ghiaccio...

M: A me sembra comunque un po' troppo meta. In seguito hai scritto alla spicciolata di metafore e di pubblicità... sembravi andare bene con la cosa della lettura della realtà. Ma poi ti sei perso. Ti sei messo a scrivere di cultura, anche se in modo leggermente dissacrante, di linguaggio e retorica, di Dada, psicanalisi e Zen... per poi infilare una serie di pezzi che sembrano ripiegati su se stessi, falliscono le aspettative che hanno costruito e divagano compulsivamente. Corretto?

D: Beh, si.

M: Mi sembra che le conclusioni possibili siano poche: o avevi una idea estremamente vaga fin dall'inizio, che correggi alla bell'e meglio andando avanti, o avevi una idea precisa, ma del tutto eccessiva rispetto ai tuoi mezzi, che quindi tradisci costantemente.

D: Guarda che un blog non è un trattato. Non c'è bisogno che sia diviso in capitoli e ordinato. Io volevo partire dal reale, organizzare ripensamenti. Alla fine sai benissimo che la mia versione di metodo e disciplina comprende un certo grado di inconsapevolezza ed eterogenesi dei fini. Volevo esemplificare un modo del pensiero,

M: Certo. Ma quando c'è di mezzo il linguaggio deve perlomeno esservi un sistema di echi che si rispondano. Non puoi fare le prove col sipario aperto, se capisci ciò che voglio dire. E poi, correggimi se sbaglio, non si era partiti dal sistema? Non c'è un aspetto politico di tutto questo?

D: Certo! Ed è essenziale! Non è possibile pensare coerentemente la letteratura senza politica, o la politica senza filosofia, o la psicanalisi senza letteratura eccetera.

M: Qui ti volevo. Perché allora non c'è politica nel blog? Perché non si parla di tattiche, di strategie, e sempre di "modi di vedere", di "modi di pensare", di spettacoli, rappresentazioni, linguaggio e verità? Che ruolo hanno in tutto questo la violenza, il corpo, il potere e la sopraffazione?

D: A dire la verità, quanto al potere se ne è parlato. Anche un paio di volte.

M: Ma in termini generali. I riferimenti specifici sono solo allusioni

D: Ma certo. Io so che tu forse fai fatica a capirlo, ma siccome si tratta essenzialmente di un soliloquio, con che diritto trarrei conclusioni operative? Posso fare dell'introspezione, o dell'analisi concettuale, da solo, non certo organizzarmi. Gli interventi di cui parli tu possono essere fatti solo su mandato di una collettività. Oppure prendendosi le proprie responsabilità, con nome e cognome, come membri legittimi di una collettività.

M: E tu invece?

D: E io invece ho uno pseudonimo. E per esempio, adesso sto parlando con me stesso.

M: Perché?

D: Perché il punto non è prendere posizione, ma rendersi conto di quale sia il piano del confronto, per muoversi sul suo rovescio, o per aprire crepe, se occorre.

M: Eccoti che ricominci con le misticherie. Ecco, mi ero scordato di dirti che scivoli sul mistico troppo spesso. Ciò è ideologicamente sospetto.

D: Certo. Proprio perché l'annullamento mistico del linguaggio è uno dei perni intorno ai quali può ribaltarsi il piano di realtà. Per esempio, si può decentrare l'IO o il NOI per articolare i propri concetti a partire dalla nozione di totalità armonica. Attivare o disattivare "fuochi" mitici... Non sei d'accordo che si tratta di uno strumento potente?

M: Certo. E antidemocratico, anche.

D: Beh, non ci sono che io, qui. E non ho mai preteso di avere con me stesso un rapporto paritario. Lui decide e io faccio. Il meglio che posso.

M: Va bene, allora. Ma che farai quando si tratterà di discutere davvero con qualcuno? Di sostenere delle vere ragioni, e non delle intuizioni? Di difendere la propria posizione, non di disincarnarsi in cerca di aporie?

D: Quello che fanno tutti. Mentirò.

23/09/14

Non ancora

Le persone si dividono in generale in due categorie. Quelli che vogliono veder cambiare il mondo, e quelli che vogliono vederlo restare uguale (il che equivale a non vederlo, dacché solo nella metamorfosi le cose si danno davvero a vedere per quello che sono. Per ricorrere alla nostra metafora preferita, solo nell'aprirsi di crepe diventano visibili le forze che si esercitano sui materiali).
Senza voler fare torto alla polimorfa ed inesauribile varietà del reale, non si può negare infatti che la propensione al cambiamento, l'ansia di futuro, e al contrario la perseveranza, la solidità e l'inerzia appartengano a due emisferi opposti, a tratti complementari e a tratti concorrenti della psiche umana, sia individuale che collettiva.

"Non vedo la differenza"

L'indirizzo generale di questo blog, vale a dire il feticismo per le crepe e le cose che stanno per crollare in generale parla chiaro per il sottoscritto: Difaul è – o almeno vorrebbe essere – fra quelli che godono a vedere le cose morire e risorgere, bruciare e rinascere, insomma: un patito della rivoluzione e della metamorfosi
Si tratta di una attitudine piuttosto scomoda, che deriva in parte da una deformazione professionale – alla quale tuttavia, lo ricordiamo, non corrisponde alcuna professione retribuita. Si tratta anche di una passione spesso delusa, che sembra condannare a continui dispiaceri, soprattutto in questo paese di nichilismi tutt'altro che liberatóri, ed eterni ritorni tutt'altro che eroici.




E' venuta dunque l'ora di chiedersi: perché?
Perché non cambia mai nulla? In base a quale regola nascosta, misteriosa procedura, disgustoso istinto le crepe che ci affanniamo a scavare sembrano chiudersi di notte (o quantomeno riempirsi di liquami?). Ma forse, anche se l'ora è giusta, tali domande sono le domande sbagliate. Invece di fare altri progetti (progetti su progetti, destinati a fallire come tessere di un infinito domino deprimente), potremmo provare a condividere linee di azione che prescindano dalla realizzazione o meno di un futuro prefigurato. Direi “in linea di principio”, se l'espressione non fosse fuori moda.



E' necessario affrontare la questione con metodo e disciplina. Ed è proprio qui che l'asino casca in un crepaccio. Quale metodo adoperare? Il mio preferito, sintetizzato in otto passi, è il seguente.
  1. disorientamento
  2. dolore
  3. razionalizzazione inadeguata
  4. rifiuto della razionalizzazione inadeguata
  5. soluzione surrealista
  6. delusione concreta dell' illusione surrealista
  7. sconfitta
  8. colpo di genio
Contrariamente all'idea di “metodo” che molti di voi – spero – avranno maturato con il tempo e lo studio, non si tratta di una serie di procedure esatte, né di una serie di operazioni il cui ordine garantisce il risultato. Si tratta più di una sintomatologia del problema per come esso investe un organismo, una sorta di sindrome che va avanti mentre si approfondisce, e se si risolve (dalle parti del fantasmatico punto 8) si risolve da se, per vie misteriose delle quali non si sa nulla. (A tal proposito, occorre rimarcare che nell'espressione “colpo di genio” il genio che sferra il colpo non è l'essere umano che lo riceve, per venirne guarito. Il trauma che si produce agisce spesso in modo distruttivo sul povero essere umano ossessionato, anche se risulta salvifico per tutto il resto degli esseri umani – nella qual cosa sta la vera definizione di “sacrificio”, ovvero farsi massacrare dal sacro per permettergli di entrare nel mondo.)



L'unica azione richiesta, dunque, da parte di chi affronta un problema a questo modo, per strano che possa sembrare, consiste nel tenerlo aperto: mentre i passi 1-3-5-7 si compiono assolutamente da se, alla maniera di una risposta cerebrale o psichica, i passi 2-4-6 implicano una decisione, e precisamente una decisione negativa: si tratta di rifiutare le conclusioni apparentemente pacificate alle quali il cervello vorrebbe arrivare per avere un po' di pace. Di riconoscere che la realtà non è risolta né lo sarà. In tal modo, ciò di noi che lavora all'essenziale continua a lavorare.

Siamo solo io e te, ora

Ah: e poi devi studiare. Studiare tantissimo. Sempre. Sennò non funziona.

(A quelli che hanno notato come il tema iniziale del cambiamento del mondo sia rimasto in sospeso chiedo scusa e prometto di riprendere presto la cosa. A mia discolpa, quando ho iniziato il post non mi ero reso conto di essere rimasto al passo 3, sull'argomento.)

02/09/14

Quello che ti pare

Finita la pausa estiva, è il caso di ricominciare, su questo blog come altrove, da dove abbiamo lasciato. O meglio, dacché non abbiamo mai avuto la presunzione di disegnare una linea riconoscibile, una direzione chiara, una traiettoria netta, è ora di ricominciare da dove mi pare, e provare a continuare nella speranza che infine le crepe si intersechino, da qualche parte o all'infinito, fino a formare la possibilità di uno smottamento.



E tuttavia, il momento in cui si dice a se stessi: "ora posso fare ciò che voglio, cominciare da dove mi pare, immaginare liberamente, inventare!" è anche il momento di una scoperta che ha la sua speciale amarezza. La libertà paralizza. L'assenza di vincoli soffoca. Il fenomeno brillantemente spiegato da Jean Buridan attraverso l'esempio dell'asino si manifesta in carne ed ossa, dimostrando essere tutt'altro che assurda la morte per imbarazzo della scelta.


La mia soluzione personale è, come si può vedere, una forma proiettiva di regresso: libero di parlare di quello che mi pare, parlo della libertà di fare ciò che vi pare. Ma non a tutti viene concesso il lusso di una operazione simile. E non si pensi che la situazione di cui stiamo parlando sia limitata ad una ristretta elìte di sfaccendati. Gli sfaccendati sono proprio coloro che, presi nell'impasse, godono - o soffrono, che è cosa molto simile - della situazione, e possono permettersi di protrarla per goderne o sofrirne ancora. Per tutti gli altri di noi, intendo noi esseri umani, la libertà viene al prezzo della scelta. Fai quello che ti pare, ma per amor d'Iddio: fai qualcosa.

Iddio

Una forte tentazione del sottoscritto, a questo punto, in linea con quanto si diceva qualche post fa riguardo ai bar ed alla potenzialità rivoluzionaria del tirar mattino con una birra in mano, è quella di suggerire che proprio nel protrarre la nullafacenza, nel dilapidare energie, intelligenza e spirito sta la principale di tutte le crepe. Che proprio quando non fai nulla stai rivendicando per te quei bisogni che la nostra società postindustriale costituisce in tabù, abbagliandoti con lo slogan: "work hard, party hard". E in fondo c'è della verità: è assolutamente vero che per funzionare questo mondo richiede da parte mia e tua frenesia sia nel lavoro che nel tempo libero. Soprattutto nel tempo libero. Nella trimurti produci-consuma-crepa, la seconda voce è assai più importante delle altre due.



Eppure, il vostro umile Difaul deve mettere a tacere la tentazione di dichiarare che la nullafacenza è rivoluzionaria. In parte perché sarebbe ingiusto nei confronti di coloro che lavorano costantemente ad aprire crepe ben più profonde e sanguinanti di quelle che abbiamo finora provato a tracciare in questo blog. Ed in secondo luogo perché so che sarebbe un alibi, valido tanto per me quanto per voi, per sdraiarci una volta e per sempre sul divano della storia, e dare ragione al paternalismo dolciastro ma in fondo indulgente di chi in fondo non aspetta altro.


Se dunque la semplice nullafacenza non basta, ed l'assoluta libertà è solo la faccia pulita della castrazione già avvenuta, cosa ci resta? Come potremo essere sani e felici? Quando il mago dice: "scegli una carta, qualunque carta" puoi essere sicuro che il mazzo è truccato. Per fregarlo devi andare con una spranga nel suo camerino mezz'ora prima e sorprenderlo che si esercita, frugare in mezzo a tutti quei coniglietti e colombe e cilindri, per trovare i dodici diversi mazzi che usa per il trucco. Questa metafora oscura serviva a dire una cosa: che occorre attribuire alle scelte una attenzione spasmodica. Ed in particolare al tempismo delle scelte che compiamo, che proprio in base al tempo si distinguono dalle scelte che ci capitano. Quelle non sono vere scelte. Sono un alibi di qualcuno che potrà risponderti ad un certo punto che sei stato tu a scegliere la vita che hai. Che la colpa è solo tua.



non si può illudersi che qualcuno che ha determinato il momento ed il modo di una decisione - quella che preferisci - non la stia condizionando. E' proprio questo che chiamiamo: potere. E ogni sforzo, ogni intenzione, per essere realmente una possibilità di emancipazione, deve realizzare le condizioni della propria illibertà, vale a dire deve essere al tempo stesso realizzata come sacrificio. Bisogna agire fuori tempo. Fuori luogo. Ricavare spazi. Infilarsi nelle crepe, uscirne al momento giusto e saccheggiare, distruggere e ricostruire. Imporre il tempo e lo spazio all'azione altrui. Mai rivendicare a posteriori il compenso promesso. Piuttosto, chiedere un anticipo e scappare.

Così la penso io. Poi fai quello che ti pare.