04/08/14

Due riduzioni inefficienti e un finale ridicolo

Disclaimer: quello che segue è un post difficile, in primo luogo perché l'argomento mi confonde, in secondo luogo perché è complesso. Si suggerisce la lettura attenta oppure una attività alternativa, tipo le bocce o il canottaggio.


A volte, parlando, si dice che un'idea è "forte", oppure "debole". A volte, si dice la stessa cosa di un ragionamento, oppure di un discorso. La cosa - come sempre - può avere significati diversi a seconda di chi parla, del luogo, delle condizioni e dell'argomento.
Lasciando da parte il discorso sul contesto, tuttavia, oggi voglio distinguere due dei più comuni significati di questa forma metaforica standard. Siccome infatti il progetto originale di questo blog, riassunto nel titolo, è quello di aprire crepe, tanto vale spaccare in due quello che si presenta come uno. E siccome il vostro affezionatissimo Difaul si intende solo di linguaggio, corpo, volontà e violenza, è lì che andremo a cercare cose da rompere.


Debole e forte, dicevamo. A cosa si riferisce la metafora della forza e della debolezza, quando parliamo di parole? In genere a due cose diverse.
Da un lato, si può intendere per forte un discorso coerente. L'esattezza logica, l'accuratezza dell'argomentazione, la precisione delle definizioni rinforzano un discorso. Il riferimento implicito, in questo caso, è a quei contesti e quelle condizioni in cui valgono (almeno in linea di principio) le seguenti due regole:

1) Si può continuare a parlare all'infinito

2) Le regole della logica impiegata ed il vocabolario dei termini ammessi sono precisi e universalmente condivisi (virtualmente permanenti).

Prendi per esempio la matematica: una dimostrazione matematica è, se consideriamo la definizione di "forza" descritta qui sopra, è la forma di argomentazione più stringente. Addirittura, talmente potente che non può essere messa in discussione. Secondo questa definizione, è appunto questo ciò che permette di misurare la forza: la possibilità che il discorso possa essere criticato/confutato.



Il secondo tipo di interpretazione che diamo della "forza" di un discorso è invece basata sugli effetti: un discorso è potente quando ha effetti notevoli. Questo è il parametro degli imbonitori, dei discorsi politici, del marketing ed in genere della pubblicità. Non ha nulla a che fare con la coerenza. In genere questa interpretazione è appropriata quando

1) Il discorso ha lo scopo di fare succedere qualcosa, o in generale influenzare una realtà non-linguistica (concreta)

2) Le condizioni concrete (non-linguistiche) del contesto determinano la continuazione o il termine del discorso, nonché le regole logiche ed il lessico valido

Spoiler: finisce quasi sempre in rissa

Ora: fino a qui il vostro affezionato Difaul non ha fatto che rispolverare una rozza versione dell'opposizione fra logica e retorica, fra il linguaggio della verità e quello della persuasione eccetera, una distinzione qualche secolo più vecchia di Cristo, e che a questo punto dovremmo conoscere un po' tutti.
Il punto è che, anche se in teoria questa distinzione funziona, quando ci si trova a discutere qualcosa in concreto decidere quale dei due tipi di linguaggio si sta usando e quale tipo di forza si vuole sviluppare è tutt'altro che semplice.
La scienza, che aspira ad un linguaggio logicamente coerente, deve fare costantemente i conti con i risvolti retorici (vale a dire: occorre convincere coloro che hanno i soldi a finanziare la ricerca, e gli altri scienziati ad accettarla come valida, eccetera). Dall'altro lato, nei discorsi politici non è raro che ci si appelli a "valori inderogabili" o "principi fondamentali" o "verità di buon senso", oppure che si critichi la logica del discorso altrui, cercando di dare un fondamento solido a ciò che è per principio contrattabile in ogni sua parte.
Come gestire lo scarto, lo spazio fra l'uno e l'altro tipo di discorso? E' un problema che riguarda prima di tutto il discorso politico, da sempre preso in mezzo fra la verità ed il potere. D'ora in poi chiameremo R il discorso retorico e L il discorso logico, e proveremo ad elencare i modi in cui tale contraddizione può venire risolta. Sia chiaro che non siamo i primi a chiedercelo (duemilaquattrocento anni, ricordi?), ma non saremo nemmeno gli ultimi, e siccome c'è chi lavora giorno e notte all'analfabetizzazione delle masse, provare ad articolare una serie di varianti su questo tema non ci farà del male.

Ve lo prometto

Prima soluzione: ricondurre R a L

cominciamo con la soluzione preferita dalle persone intelligenti, dai filosofi, dai tecnici e dagli scienziati (il che non la rende una soluzione meno stupida, come abbiamo argomentato in precedenza parlando della quadruplice radice della stupidità).
E' il meccanismo di pensiero che sta dietro l'invenzione del tribunale e delle istituzioni politiche in generale, e parte dalla preoccupazione per la mutevolezza e la fondamentale incoerenza degli argomenti che eccitano le folle (quella che gli inglesi chiamano mob mentality, e che potremmo anche chiamare istinto del linciaggio), ed è alla base di quella che oggi chiamiamo democrazia.
Si basa sulla costruzione di un sistema di regole e di convenzioni burocratiche che obbligano il discorso retorico R a procedere secondo una logica stabilita in precedenza, ovvero lo privano in parte della sua caratteristica fondamentale di decidere da se le sue regole in corso d'opera, distinguendo ad esempio il momento in cui le regole vengono scritte dal momento in cui vengono applicate e così via. Tale sistema di regole si impone all'ingresso, vale a dire che per funzionare tale sistema deve essere in grado di impedire la parola a chi non si sia preventivamente sottomesso ad esse. 
Ricordate il giuramento sulla costituzione dei politici italiani? Ecco, quello è in teoria il momento in cui accettano i vincoli e le regole che fanno del discorso politico un discorso del quale si conoscono almeno in parte le regole. 
La regola che vuole che il discorso L continui ad libitum, ovvero finché c'è qualcosa da dire, viene approssimata istituendo dei luoghi (parlamenti, tribunali) in cui siedono funzionari il cui compito è dire tutto quello che c'è da dire.



Naturalmente, tale operazione non riesce mai del tutto, e a volte va incontro a fallimenti catastrofici, per il motivo che il discorso R non si lascia mai completamente ridurre, ed occorre un lavoro incessante a farlo assomigliare a L. Quindi, ad esempio, l'ostruzionismo è quella forma in cui una caratteristica di L (la possibilità di parlare ad libitum) viene usata per motivi eminentemente retorici (non far succedere qualcosa). Oppure a volte il sistema di pesi, contrappesi, sanzioni ed esclusioni che deve rendere stabili le regole del discorso non funziona. La disfunzione può essere nel fatto che diventa più conveniente eluderle, oppure nel fatto che un buon conoscitore del sistema riesce a sfruttare le regole l'una contro l'altra (et voilà: questa è la crepa in cui vivono gli avvocati). Il sistema finisce per diventare sempre più bizantino man mano che si cerca di ovviare a queste contraddizioni, e alla fine si autodistrugge.
(vale la pena osservare che ogni sistema politico ha sempre una scelta: può scaricare le contraddizioni all'esterno, e decidere che chi non osserva le regole stabilite va fuori, e allora rischia di trovarsi ad essere guidato da una sorta di aristocrazia ideologica/tecnica/teologica; oppure decidere di gestirle all'interno, rischiando l'empasse, l'incomunicabilità e lo stagnamento)

seconda soluzione: ricondurre L a R

Insomma, se qualcosa del discorso confuso ed eccessivamente generale qui sopra si capisce, è che non si può fare di un discorso retorico un discorso logico. E non perché la gente è cattiva, oppure perché esiste una casta di imbecilli affamati di potere che vampirizzano la nazione (entrambe affermazioni abbastanza realistiche), ma perché per trasformare R in L bisogna elaborare a partire da R, ed inevitabilmente la costruzione ottenuta non diventerà mai salda (come vuole l'utopia della "democrazia matura").
La seconda soluzione è quella preferita dai cinici, dai nerboruti, dai capitalisti eccetera, e si riduce alla legge del più forte. Siccome R si basa come abbiamo visto sulla funzione del discorso di agire sulla realtà, e viceversa di farsi dettare le proprie condizioni dalla realtà, la conseguenza fondamentale quando tentiamo di eliminare ogni caratteristica di L dal discorso politico è quella di trasformare il discorso in una contrattazione in cui le regole vengono dettate dalla situazione (non conta chi ha ragione, ma chi ha più forza contrattuale), ed il cui obiettivo è sempre poco conclusivo: non si stabiliscono regole, ma un vincitore, ovvero una nuova distribuzione di forza contrattuale che è la condizione della prossima contrattazione eccetera.

La politica è la continuazione della guerra, con altri mezzi

Laddove L tende a dilatare il tempo (le regole logiche sono permanenti, le dimostrazioni matematiche valgono per sempre), R tende a contrarlo fino al punto in cui l'intero esercizio diventa futile. Questo tipo di soluzione non porta al collasso, ovvero ad una situazione di crisi in cui i fondamenti del discorso crollano, ma alla decadenza, vale a dire ad una progressiva accelerazione nella quale le energie vengono sempre più impiegate nella retorica, e la realtà sempre più considerata una costruzione retorica.
Buoni esempi ne sono il capitalismo avanzato ed il governo Renzi.



"E allora? Non vorrai lasciarci così, stimato Difaul" direte voi. E io risponderò che invece è proprio a questo punto che sono arrivato, nella mia ricerca della sanità mentale. Mi consolo pensando che in fondo le contraddizioni di cui sopra ci dicono solo quello che sapevamo già: che come ogni essere umano preso infine dovrà morire, così alla fine dovrà scomparire ogni forma di esistenza organizzata collettiva, per essere rimpiazzata da un'altra. L'elenco delle contraddizioni è solo un piccolo repertorio di scomparse possibili, e può servire a consolare quelli di noi che soffrono dello stato di cose corrente con la convinzione che finirà, oppure come apparato diagnostico.
Alla fine, infatti, l'unico modo di rimanere in vita, almeno per un po', è giocare le proprie incongruenze l'una contro l'altra, la verità contro il potere, il potere contro la verità, la morte contro la morte.
Invece di aggrapparti, apri crepe.
Passa attraverso.