08/07/14

Disorientamento e totalità

A volte, quando scrivo su questo blog, ho una forte sensazione di disorientamento. Come se le parole che uso per dire ciò che voglio dire finissero sempre per dire da se qualcos'altro, qualcosa che non solo si aggiunge o si sottrae alla mia volontà originale, ma che la moltiplica, la demoltiplica, la radicalizza o la eleva a potenza.
Fortunatamente, per chi si occupa di aprire crepe, di scavare incoerenze, il disorientamento non è un grosso problema. Come insegna Von Clausewitz, l'attacco è la forma più debole cui corrisponde un intento positivo, laddove la difesa è la forma più forte cui corrisponde un intento negativo. Considerato che qui si propone molto meno di quanto si critichi, sembra ovvio dichiararsi dalla parte di una difesa, e nello specifico della difesa della complessità dagli attacchi del pensiero. La complessità indominabile sembra dunque a prima vista giocare a nostro favore: più il linguaggio si muove per conto suo (al punto che non si può mai essere sicuri di ciò che si dice, e tantomeno di ciò che si vuole dire), tanto più la difesa risulterà efficace.


Come Joyce, si scrive per frustrare la lettura, per far disimparare al lettore la pacifica e rassicurante convinzione che ci siano pensieri nelle parole, e nello specifico i pensieri dell'autore, che entreranno quindi, una volta che si conosca la chiave di lettura (per aprire le frasi, e far uscire i pensieri), nella testa del lettore. Una volta che tale illusione sia dissolta, apparirà nuovamente tutto intorno all'individuo impegnato nella lettura l'orribile/assoluta/estatica realtà, eterogenea rispetto ad ogni pensiero, imprendibile, ineffabile.


In tutto o in parte, in una forma o nell'altra, questo atteggiamento percorre il DADA, il surrealismo, il situazionismo, il Punk e una parte consistente dell'arte contemporanea. Epperò non funziona.

Per capire il motivo per il quale la semplice incoerenza, il bastone fra le ruote del pensiero non funziona (in occidente) si potrebbe iniziare una analisi lunga e complicata, che si muova storicamente dall'invenzione della stampa in giù, ripercorrendo la costruzione di una episteme. Non è questa, tuttavia, la strada che prenderemo su Crepe, per due motivi:

1) Il mondo non ha bisogno di un blog sulla storia dell'occidente
2) Esistono i libri, per articolare questa lunga gittata del pensiero


Quello che invece faremo sarà ragionare su alcuni termini di confronto, nello specifico la forma letteraria del Koan e la nozione di double bind (doppio vincolo) coniata da Gregory Bateson nel corso del su lavoro sulla schizofrenia (e poi adattata ad una marea di utilizzi ulteriori, solo alcuni dei quali hanno corso al giorno d'oggi).

"E' una parola, Difaul", potreste dire a questo punto. "Per evitare il laghetto ti butti nell'oceano". E avreste ragione: tirando in causa i Koan usciamo dal problema dell'occidente (o almeno: dovremo riformularlo in termini che non riguardano solo l'occidente), e tirando in ballo Bateson... beh, tirando in ballo Bateson potrebbe succedere qualunque cosa.



Ciononostante, statemi dietro ancora per qualche riga, e prometto che da qualche parte arriveremo (anche se ancora non so se qualcuno ci sta aspettando, dall'altra parte).
Innanzitutto il Koan: un Koan è una sorta di indovinello, un enigma. A differenza di un enigma o di un indovinello, la cui funzione dichiarata è "dare da pensare", e quindi esercitare il pensiero a discernere al di sotto delle oscurità di un linguaggio volutamente ambiguo, metaforico, figurativo, la "soluzione" dell'enigma, il koan si presenta fin dall'inizio come privo di soluzione.
Per fare un esempio, questo è un indovinello:

"Ci sono tre fratelli.

A volte sono brutti, mentre altre volte sono belli.
Il primo non c'è perché sta uscendo, il secondo non c'è perché sta venendo, c'è solo il terzo che è il più piccolo dei tre, ma quando manca lui nessuno degli altri due c'è.
Chi sono?"

Mentre questo è un koan

"Qual'è il suono di una sola mano?"

Ora, un individuo abbastanza sveglio potrebbe riuscire in qualche decina di secondi a capire che la "soluzione" del primo problema è "il passato, il futuro ed il presente". Quanto al secondo, esso è appositamente costruito per non avere soluzioni. Da questo punto di vista "Chi sono io?" "Che significato ha l'esistenza?" "Qual'era l'aspetto del mio viso prima che io venissi concepito?" sono tutti koan, e potrebbe esserlo anche questo:



Perché una domanda senza risposta diventi un koan, tuttavia, non basta che essa sia posta. E' essenziale che se ne faccia il giusto uso, ovvero che il pensiero logico-categoriale vi si applichi insistentemente rimanendo disorientato, che attraverso l'ossessivo ritorno sulla domanda senza risposta venga progressivamente ad essere scardinata l'abitudine della sequenza domanda-risposta. Ma perché un individuo sano di mente dovrebbe fare una cosa del genere? La pratica del koan è in questo senso indistinguibile dalla meditazione che ha di mira qualcosa di più e qualcosa di meno (non si può che essere nuovamente contraddittori) della rappresentazione, per un motivo che vedremo fra qualche paragrafo.



E qui arriviamo finalmente al double bind. La domanda che si pone infatti chi non è avvezzo alla meditazione seduta (zazen), o all'arte paradossale, o alla filosofia continentale è: perché? Per quale motivo il pensiero non si allontana da questi materiali impossibili, una volta che sia assodato di non poterne "trarre" nulla? Dopo tutto basterebbe non andare al museo, non iscriversi a filosofia, non frequentare un Dojo Zen, non andare a vedere Ionesco a teatro, non leggere Tzara... Tutte cose molto semplici. E nessuna di queste ci impedisce di fare finta di aver letto Ionesco, meditato, filosofato (cosa molto meno faticosa, e molto più produttiva, dacché libera tempo per andare agli aperitivi).




Ed è qui che la nozione di double bind torna utile: si ha il doppio legame quando un individuo è al tempo stesso nell'impossibilità di compiere una scelta e nell'impossibilità di non compierla. L'esempio psicologico di Bateson di doppio legame schizogenico è (più o meno, vado a memoria) il seguente:

Un ragazzo si avvicina a sua madre per abbracciarla. Lei si scosta, si stringe nelle spalle e rabbrividisce. Il ragazzo, di conseguenza, interrompe l'atto di abbracciare. Al che la madre gli chiede "Che succede? Non mi vuoi più bene?"

La madre, che probabilmente non ha completamente accettato la maternità (per una pletora di motivi possibili) esibisce inconsciamente un comportamento che poi nega consciamente, proiettando sul figlio la sua mancanza di amore filiale. Il figlio è disorientato: non sa se prendere per buone le parole od i gesti. Non sa nemmeno più se è lui stesso ad allontanarsi o se viene allontanato. E al tempo stesso non può semplicemente allontanarsi: la dipendenza emotiva dalla madre lo tiene fermo nel dilemma, e cresce man mano che il figlio non si sente in grado di risolvere per un verso o per l'altro il suo comportamento. Una delle conseguenze potrebbe essere l'insorgenza nel figlio della schizofrenia.


Torniamo ora al nostro problema linguistico: il monaco zen che medita i suoi koan sa di non poter fare altrimenti. Alla base della visione del mondo (ma forse sarebbe meglio dire esperienza del mondo) buddhista, il mondo è fondamentalmente pervaso dall'incoerenza, dal dolore, da quella che si chiama dukkha. Il doppio vincolo occupa interamente l'esistente: non si può sfuggire alla dukkha andandosene in un altro luogo: non esiste un altro luogo. Ergo: tutta le forme viventi che non sanno affrontare il dolore, scoprirne il segreto, sciogliere la contraddizione (non con una "soluzione", ma decostruendone i termini, passando ad un altro modo del pensiero) sono in qualche modo schizofreniche. Alla domanda "perché un uomo sano di mente dovrebbe fare una cosa del genere?", si risponde che, prescindendo dalla pratica della meditazione non esistono uomini sani di mente.

L'avevo detto, io
Eccoci dunque di fronte alla spiegazione che andavamo cercando: il DADA, il surrealismo, il situazionismo, non funzionano fino a che si continua a pensarli come fenomeni circoscritti, rispetto ai quali si può stare "alla larga". Il teatro, il museo, sono cornici rassicuranti, che tengono dentro la contraddizione e fuori il senso comune. La sospensione dell'incredulità fa lo stesso per il romanzo. Si impedisce così al paradosso espresso in tutti questi luoghi di presentarsi allo stesso tempo come sintomo e come tentativo terapeutico rispetto alla realtà umana tutta.

L'idea che finito il delirio della comprensione ed organizzazione della totalità (cui facevamo cenno all'inizio, ricordate? L'illusione di una comunicazione non-problematica, universale, che si vale della metafora contenitore-contenuto) si passi ad una problematizzazione della totalità in quanto tale, che deve passare per oltre e sopra e sotto e intorno alla logica categoriale, si scontra con l'altro esito contemporaneo, quello che va sotto il nome di postmodernità: dopo la fine delle grandi narrazioni mitologice-religiose-consolanti del novecento non ci rimangono che narrazioni minuscole, frammentate, non-totalizzabili ma ugualmente consolanti, e per la totalità non c'è più spazio, nemmeno lo spazio di un rovesciamento, di un paradosso, di una assunzione di responsabilità individuale rispetto all'incoerenza complessiva.

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