13/06/14

Ordem e Progresso

Ci sono i mondiali, che in Italia significa mondiali di calcio perché gli altri sport notoriamente non esistono.
I mondiali, per chi non lo sapesse, sono una manifestazione sportiva in cui ogni paese forma una squadra con i suoi giocatori migliori, poi quei giocatori giocano fra loro e alla fine una squadra vince. La metonimia vuole che con quegli undici (più le riserve, i tecnici, l'allenatore e via dicendo) sia l'intero paese a vincere: per questo motivo, quando ad esempio l'Italia vince i mondiali, una torma di giovani adulti, con il volto variamente pitturato ed il torso nudo si aggirano per qualche ora nei luoghi centrali e simbolici delle città, se va bene ululando, se va male suonando il clacson.


A parte fornire una prova concreta alla teoria del caos (una palla di cuoio che supera una linea invisibile a Berlino provoca ingorghi a Napoli, Torino, Milano e Roma), il mondiale serve a scaricare energie in eccesso e rancori accumulati, ed in generale ad avere qualcosa di cui parlare di qui a qualche settimana. E fin qui nulla di nuovo. Cosa si intende tuttavia per "scarica", "sfogo"? Quale è la caratteristica fondamentale della "passioni calcistiche"?
L'idea che mi sono fatto è che il calcio sia uno sport coinvolgente principalmente per il motivo che è molto caotico. Contrariamente ad esempio al tennis, o anche in qualche misura al basket, sport nei quali i più forti in genere vincono, nel calcio succede che i più forti non vincano (cosa che consente anche uno spazio larghissimo alle dispute su quali siano in realtà i più forti, un genere di dibattito nel quale i giovani italiani si allenano fin da piccoli). Proprio per questo, è possibile fare il tifo.
Potrebbe sembrare un controsenso: dopo tutto, non ci hanno forse spiegato che la sportività consiste appunto in questo, nel fatto che "vince il migliore"? La realtà è che il tifo è impossibile senza uno stato spirituale di trepidazione che a sua volta dipende dal fatto che non si può prevedere cosa succederà sul campo. Dunque si spera, ma anche si teme, e si pronostica freneticamente a vuoto, e si incoraggia, e ci si agita in quelle forme scomposte ed apotropaiche che sempre accompagnano i goffi tentativi dell'umano di dominare o avvicinarsi al kairòs, al caso, all'evento puro, imprevedibile.


Si comprende sulla base di quello che abbiamo detto anche la regola secondo la quale tali emozioni "calcistiche" diventano sempre più preziose man mano che la società industriale avanzata acquisisce potere sulle vite. Tanto più l'individuo si sente ingabbiato, stretto, costretto da una forma di vita prevedibile e regolare, tanto più la ricomparsa dell'incalcolabile, della casualità, del "destino" diventa una fonte di gioia in se, una dimostrazione, per quanto derisoria, del fatto che la realtà non si esaurisce in serie ripetitive e frustranti di azioni quotidiane, che c'è un di più, che c'è il sublime.
In un evento lontano, ma ossessivamente presente (su tutti gli schermi, in tutte le case) trova sfogo una serie di riflessi che l'essere umano ha progressivamente rimosso dalla propria "vita reale", trovano un referente le categorie di "eroismo", "sciagura", "trionfo". Il loro riapparire dall'altra parte dello schermo, non c'è bisogno che lo ripetiamo, è parte integrante della rimozione, ed assicura la passività del pubblico.


Veniamo ora al presente, a questo mondiale, e cerchiamo di leggerlo a partire da quei prodotti culturali ai quali spetta amministrare l'attesa, giustificarne la mastodontica inutilità eccetera.
In primo luogo, Giancarlo Giannini.


Lo spot è delicato, malinconico. Non parla di Brasile, di calcio, di campioni; parla invece di memoria, di immaginario collettivo (convenientemente rappresentato appunto dallo sguardo profondo ed un po' turbato di Giannini). Annuncia che anche quest'anno, come da tradizione, il mondiale consegnerà momenti memorabili.
L'evento sportivo in questo caso è un pretesto per un'emozione senile, la possibilità di ritrovarsi, la confortante ciclicità della vita che prosegue secondo la tradizione, sempre uguale. L'Italia che l'attore vede, passeggiando pensoso fra bambini che giocano a calcio e ragazzi con la maglia della nazionale, è un'Italia arcaica, l'Italia dei paesi che lasciamo al più completo degrado ed ai quali tuttavia torniamo quando dobbiamo ricostruire una mitologia nostalgica. Il mondiale, che arriva ogni quattro anni, sembra avere proprio questa funzione tipica del rito: nel restituirci il contesto di ricordi lontani, assicura che ve ne saranno di nuovi, che almeno questo non cambierà mai.
Dall'altro lato, oltre a ricordarci le virtù lenitive e confortanti di una ritualità collettiva, gli esperti di comunicazione del mondiale vogliono comunicarci un senso di attesa, di esotismo. Diavolo, si va in Brasile! E allora si ricorre a gallerie di facce brasiliane sorridenti, ragazzi che jogano capoeira, vedute suggestive, strizzate d'occhio alla storia calcistica (spot della Visa, con il ritorno in Brasile di Paolo Ross).


Gli spot di Sky (anche per la necessità di rivolgersi ad un pubblico assai più ampio di quello italiano) mettono in scena un Brasile favolistico, ricostruito. Si gioca sugli stereotipi: l'allegria carioca, la cordialità, il colore... Nulla di nuovo.
Lo spazio della rappresentazione sembra dunque disposto: un paese  che guarda un altro paese. La finzione si dispiega su entrambi i lati della rappresentazione televisiva: un paese finto, redento, depurato dagli aspetti contraddittori, ridotto al santino cattolico/catodico della famiglia davanti alla TV, e dall'altra parte dello schermo un paese pacifico, festoso, entusiasta. Fin qui lo spettacolo.

Come abbiamo detto, tuttavia, il bello del calcio è l'inaspettato, l'inquietante possibilità di un errore. L'evento puro, le cui cause sono innumerevoli (e servono appunto ad essere contate e confrontate nei bar del pianeta).
E però capita che una struttura simile, un evento indominabile, non si lasci rinchiudere in uno stadio.


Lo spot di Amnesty fa saltare la prima regola della creazione dell'immaginario: l'isolamento preventivo dalla realtà. Mette in scena gli scontri, nel senso che li ammette nella scena per eccellenza dei mondiali: il campo di calcio. Sembrerebbe una operazione meritoria, ma finisce per rovesciarsi.
Nel momento in cui gli scontri sono rappresentati come una partita, scompare il motivo reale, sociale, politico della loro esistenza. Diventano incomprensibili, un "gesto sportivo". Ed è proprio in forza dello "spirito sportivo" che si chiede meno violenza alla polizia (ed ai manifestanti?), come se quello in cui sono impegnati fosse un confronto regolato, sostanzialmente pacifico, spettacolare, che deve quindi adattarsi ai requisiti della visibilità.
Lo slogan "Il mondo sta guardando" suona particolarmente ipocrita: se dovete ammazzarvi fatelo fuori dall'obiettivo dei fotografi. Poliziotti, fate fuori i manifestanti dopo, o prima, ma non durante i mondiali: fa un brutto effetto ai turisti.
In ultimo, va rilevata l'agghiacciante immagine dei poliziotti che dopo aver percorso il campo distruggendo fisicamente gli avversari, avanzano verso la porta, segnano ed esultano. Proprio in quel punto, c'è da imparare una grande verità che le piazze nostrane non hanno mai colto: se la lotta si spettacolarizza, in genere la polizia vince.


La scena del mondiale si incrina (si formano crepe): lo spazio neutralizzato del campo di calcio torna ad essere sempre più un pezzo di un paese disastrato e sempre meno un teatrino ad uso delle nostre memorie.
E a me dispiace un sacco per Giancarlo Giannini, ma quello che ricorderemo per sempre stavolta non è una prodezza in azzurro, ma la violenza spietata e selettiva, corporativa ed efficace del governo brasiliano e della FIFA, le opacità legali, lo spray urticante, lo scontro con i sindacati ed il blocco della metropolitana di San Paolo.
L'evento, questo motore inconoscibile, polo erotico della passione calcistica è uscito dal campo. Ciò che veramente accade è fuori, nelle strade, e non urla (passività frenetica) per incoraggiare la nazionale, ma per se stessi e la propria nuda vita calpestata e rimossa perché scandalosa.
La metonimia è fallita, ed un'altra subito la rimpiazza: il Brasile non partecipa ai mondiali. Il Brasile li combatte. Il Brasile non ha vinto, ieri. Il Brasile ha perso, e perderà, e perderà ancora, rappresaglia dopo rappresaglia, sgombero dopo sgombero. I "ricordi che ti porterai per sempre" sono falsi.

The price of the world cup

John Oliver

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