25/06/14

Penna e bicchiere



Di questi tempi non è difficile incontrare qualcuno che scrive. Se vivi in una grande città, il modo migliore per incontrare qualcuno che scrive è selezionare un quartiere centrale, in genere non troppo lontano dalla facoltà di lettere e filosofia, e passare al setaccio i bar. Senza troppa fatica, fra le dieci e l'una, si incontra almeno tre poeti, due romanzieri ed un filosofo.

Ora: se c'è un tropo abusato è l'ironia, quindi vi prego di capire che quando accenno all'abbondanza di letterati o presunti tali che popolano i bar, i pub, le bettole ed i luoghi di spaccio in generale non sto facendo dell'ironia. Eppure, scommetto, nel leggere le quattro righe che aprono questo pezzo avete pensato: ecco che parte anche il povero Difaul con la tirata contro gli hipsters, la gente con gli occhiali, la barba e velleità intellettuali.



Il luogo comune assai diffuso secondo il quale esiste una caratteristica chiamata "creatività", innata ed abbastanza rara, ed un'altra caratteristica chiamata "genio", anch'essa innata e rarissima, infatti, si mette in mezzo alle mie parole: basta dire ad esempio "è pieno di artisti da queste parti" perché nello spazio del non-detto si srotoli un sillogismo:

i "veri" poeti/artisti/filosofi sono molto rari
i filosofi/artisti/poeti da queste parti abbondano
i filosofi/artisti/poeti da queste parti non sono "veri" poeti/artisti/filosofi

Ora, non occorre quasi commentare questa formula: sostituisci a "da queste parti" il nome di un quartiere notoriamente popolato di vittime del proletariato cognitivo ed avrai un generatore di luoghi comuni che funziona sull'intero territorio nazionale.
Come ormai si sarà capito, qui su crepe l'intelligenza come fine ci interessa molto relativamente: in genere si parla invece di sorgenti della stupidità. Non bisogna cadere in errore: le due non sono in una relazione di mutua esclusione. Laddove infatti per essere intelligenti basta non essere ottusi, per non essere stupidi bisogna coltivare non solo l'intelligenza, ma anche la saggezza, l'empatia e la lucidità. Vi è una stupidità sobria, che consiste nella mancanza di saggezza/intelligenza/empatia, una stupidità intelligente, che consiste nella mancanza di lucidità/saggezza/empatia, e così via.

Intelligenza stupida

Particolarmente interessante dunque risulta dal nostro punto di vista capire come funzioni la creazione di stereotipi: contaminati dal modo di fare di linguisti cognitivi ed antropologi, ci daremo quindi alla raccolta di dati per ricavare una anatomia di quella specifica galassia dell'idiozia nostrana, cercando di non cadere nel luogo comune che vuole ritrarla come una mancanza, un vuoto, un'assenza, e trattandola invece con il dovuto rispetto: come un organismo quasi-biologico, una realtà antropologica che appare a volte con la coerenza e la consistenza di una organizzazione sociale stabile, a volte con l'aleatoria ossessionante ubiquità di un luogo comune.

orror vacui...
Torniamo al caso di oggi: una radice della convinzione che "creatività" e "genio" sono senza dubbio un prodotto del modo in cui si tende a concepire ed insegnare la storia culturale di questo paese. L'insegnamento della letteratura italiana (ma anche quello della storia dell'arte o del latino, del greco, della filosofia) è strutturato da una serie di nomi e opere "fondamentali". Alla vita di ognuno dei grandi autori si da un senso narrativo, ad ogni capolavoro si attribuisce il merito di aver cambiato (per sempre!) il modo di fare poesia/arte/filosofia.
Da nessuna parte compare il costante lavorìo dei cervelli distribuito in ogni dove: Baudelaire riassume in una figura titanica la Parigi del tardo diciannovesimo secolo, Manzoni/Leopardi/Carducci formano l'orizzonte di una "evoluzione", che dispone anch'essa in forma narrativa l'articolazione di una "corrente" con l'altra. Attraverso essi, non si arriva che ad intuire (ed occorre un buon professore) l'essenziale del ruolo che la parola poetica svolge. "Identità culturale", "Cultura umanistica" sono vuoti nomi, senza il riconoscimento di una necessità generale, interculturale, banalmente umana e dunque universale, della quale si parla pochissimo, e mai fuori di metafora.
Cosa resta a giustificare la specificità di termini come "poesia", "arte", "filosofia"? Nessuna accumulazione sembra possibile: nella traiettoria temporale che i programmi scolastici disegnano non vi è arricchimento, ma strattoni e novità che si cancellano l'una con l'altra, e tutt'al più lasciano dietro opere ammucchiate ed irripetibili, delle quali è chiarissimo il debito con il tempo storico che le circonda e con la personalità dietro alla penna che le traccia (ed è appunto questo ciò che le rende irripetibili) ma mai la varietà di usi locali, dispersi, magari anche fraintendimenti che da ognuno di questi pezzi si espande, rendendoli a buon diritto capolavori. La storia della letteratura (ancora una volta è bene specificare: la storia percepita della letteratura) è il passaggio di una fiaccola dalle mani di un titano alle mani di un altro, fino a quando l'eccessiva prossimità al momento attuale rende problematica la scelta di una figura titanica da ergere a simbolo e la fiamma sembra spegnersi.



Da nessuna parte si dice/scrive una vita possibile di quella letteratura, della letteratura storica, che deve essere tenuta da parte proprio per proteggerla dagli scempi del tempo. Non è sorprendente dunque che il modo di pensare l'attività creativa/letteraria debba per contrasto (ma è un contrasto che inscrive già la sua legge nel movimento interno della storia della letteratura per come è insegnata) inventare la sua propria eterogeneità.
Da qui la nozione di creatività: una caratteristica dell'individuo, che non ha a che fare con la sua formazione culturale né con quanto ha studiato, e nemmeno con lo sforzo incessante che gli è costata la produzione di un'idea. Si tratta della capacità prometeica di riaccendere la fiaccola, e che se richiede una misura di educazione/affinamento è proprio nella misura in cui tali attività sono necessarie a far uscire quello che era in effetti già dentro.




Sembra dunque che abbiamo fatto sul serio il giro: dalla critica del luogo comune contro gli artistoidi alla critica dell'autorappresentazione degli artistoidi, nient'altro che un passaggio di livello dal meno cerebrale al più cerebrale, per rimanere in sostanza allo stesso punto. E invece no: alla percezione della storia della letteratura/poesia/filosofia, ed alla reazione espressionista (lo faccio per esprimere quello che ho dentro...) si oppone una frangia resistentissima, incorruttibile, immensamente onesta e brutalmente acuta, il vero vaccino a tutti i generi di stupidità.
Dove? Che domanda assurda: per forza nei bar.



Nelle bettole, in quel sottobosco di spazi e tempi destinati a mungere gente "nel tempo libero" si distingue un certo numero di luoghi di ritrovo a bassa intensità emotiva, posti dove ci si rompe i coglioni sempre, eppure si è tutte le sere. Gli avventori bevono, ma senza entusiasmo, per arrivare allo stato di quiete annoiata e appesantimento che fa venire le parole. Nessuno si aspetta delle novità, eppure si è sempre tutti li. Ed inevitabilmente si parla. Di cosa? Di tutto. E preferibilmente non di lavoro.
Quindi del potere, della gente, di cultura, di filosofia, di arte, di media...
nello spazio rarefatto ed inutile, destinato ad accogliere un numero variabile di inutilità temporanee, gente che "perde tempo" al bar, si apre grazie all'infinita capacità di adattarsi dell'essere umano una delle vere e grandi possibilità dei nostri tempi. L'irrealismo, la capacità di pensare oltre l'orizzonte della condizione reale attuale, risorge e si lecca le profonde ferite inferte dall'onnipresenza della comunicazione commerciale e dalla propaganda politica. Ci si scambiano ironie, si fanno progetti velleitari, si scoprono affinità...



Il bar, del quale si è da tempo dimenticata la potenza (pensate ai caffé nell'inghilterra dell'illuminismo, alla parigi del 1840, a Vienna nel 1908...) funziona inosservato. Gli esseri umani dotati di antenne, quelli che sanno che il dentro emotivo non funziona come macchina estetica senza la galleria di specchi del fuori, vi si ritrovano sempre più spesso, ora che sono frustrati, iperscolarizzati, ignorati dalla rappresentazione politica della realtà.
Inascoltati, parlano. Invisibili, pensano. E non tutti loro hanno la barba, e non tutti loro scopano un sacco o fanno foto. Alcuni prendono la via ripida, riscoprono il passaggio a nord-ovest dall'arte alla vita vera. E le risorse spirituali che l'accademia non neutralizza più (a questo, in fondo, è sempre servita) si accumulano, crescono.

Si aprono crepe.

17/06/14

E tu allora?

L'altro giorno, mentre ero al bar con alcuni amici, si parlava di capitalismo, di ricchezza, di società industriale avanzata e di meccanismi di esclusione.
Uno dei suddetti amici, che per comodità chiameremo M., era nel bel mezzo di una filippica contro lo sfruttamento, la povertà, la precarietà eccetera quando un altro, che per comodità chiameremo L., lo interrompe proponendogli una delle obiezioni più diffuse e frequenti a questo genere di filippiche.

"Scusa, ma tu che parli e parli, non sei anche tu come noi nel bel mezzo di questo capitalismo che ti sembra tanto mostruoso? Non porti scarpe fatte da bambini dall'altra parte del mondo? Non mangi i frutti di agricoltura transgenica ed antiecologica? Non lavori per uno stipendio? Non piacerebbe pure a te essere ricco? Non la guardi la TV? Non ce l'hai un PC? E uno smartphone? E allora che parli a fare? Quando sarai sopra un monte a fare l'eremita, allora si che potrai parlare."

M., preso in contropiede, si mette a cavillare, giustificando malamente le scarpe, il lavoro, lo smatrphone e tutto il resto, chiude con una alzata di spalle e alla fine dice: "mica posso fare da solo. Ci vorrebbe una rivoluzione." E tira un bel sospirone scoraggiato. A quel punto qualcuno chiama un altro giro, il flusso viene interrotto, la serata prosegue. Si fanno altri discorsi e quello iniziale viene ben presto dimenticato, come è nella natura dei discorsi da bar.



Eppure, il giorno dopo e quello dopo ancora la domanda di L. mi insegue. La sento crescere mentre mangio, mentre dormo, sempre più pressante. Realizzo che è ovunque: su internet, per strada, in TV. "E tu? Non sei anche tu coinvolto? E allora cosa parli?". A proposito di qualunque cosa. Dalla crudeltà sugli animali alla corruzione nelle grandi opere, cambia il contesto ma non quel minuscolo, velenoso meccanismo discorsivo, tanto diffuso da aver suscitato un meme:



Cosa ha di diverso dalle mille altre frivolezze che si ascoltano ogni giorno? Che cosa lo rende così pericoloso? Alla fine, un campanello segna la fine-cottura nella mia testa, e riesco a partorire una serie di illazioni e speculazioni al riguardo che, se non mettono la parola fine alla questione, almeno mi fanno dormire la notte.

In primo luogo, la questione è il rapporto fra dentro e fuori. Perché il ragionamento di cui sopra abbia corso, deve potersi distinguere un "dentro" ed un "fuori" del "sistema". Il "sistema", in quanto tale, ingloba tutto ciò che si trova al suo "interno", e si oppone a ciò che è "fuori".
In secondo luogo, la questione di ciò che è dentro o fuori rispetto al sistema si pone sul piano delle cose e di conseguenza sul piano delle persone. Il "sistema" si identifica con una serie di oggetti e luoghi: lo smartphone, il supermercato, il cinema multisala, il MacDonald, sono il sistema. Dunque, è "dentro" il sistema rispettivamente chi compra, chi vende, chi lavora per produrre e chi consuma gli oggetti e gli spettacoli che lo compongono. E' "dentro" il sistema chi va al MacDonald, chi supporta una squadra di calcio, chi possiede uno smartphone e così via.
In terzo luogo: la critica al sistema e la sua eversione sono possibili (senza ipocrisia) solo da fuori. Solo chi non è caduto nella rete, chi non è stato "contagiato" ha la purezza per pronunciarsi contro. Troppo facile fare la rivoluzione con i soldi di mamma. E' da chi è solo una vittima del sistema, chi non ne ha mai conosciuto le comodità che possiamo aspettarci una critica legittima, una azione incisiva che non sia "solo chiacchiere".

rivoluzionari accreditati

Il primo punto è una ipersemplificazione: ciò di cui si parla come "il sistema" non è (non può essere mai) una estensione omogenea di pratiche, comportamenti, modi di pensare. Piuttosto, esso si presenta ovunque come il lavoro incessante di controllare e reprimere le contraddizioni che produce, lo sforzo di riempire le crepe che si aprono ovunque. Mettere in un fascio il CEO di McDonald, il cassiere ed il cliente significa eludere il problema delle relazioni di potere e desiderio che intercorrono fra l'uno e l'altro (convenientemente mediate proprio da quell'insieme di principi ideologici che chiamiamo capitalismo). Significa affermare che dal momento che fanno parte dello stesso sistema essi non possano lottare costantemente l'uno contro l'altro per vantaggi momentanei o duraturi. Significa dimenticare le possibili linee di frattura, e sancire fin dall'inizio l'impossibilità del collasso del sistema.
A questo oblio mirato serve il secondo punto. Come già sa chi abbia letto Il Capitale, il feticismo della merce è quell'inganno che traveste i rapporti di potere sociali in rapporti fra oggetti. Il capitalismo secondo il luogo comune riportato da L. è uno smartphone, non il peculiare modo di produzione dello smartphone teso a ridurre i costi e accumulare plusvalore sfruttando ad esempio studenti cinesi. Solo a partire da questa confusione è possibile credere veramente alla brutalizzante semplificazione di cui sopra. Il "sistema" diventa così un insieme di oggetti, di luoghi, di persone avendo a che fare con i quali ci rende "parte del problema" e dunque certamente non della soluzione.
E veniamo al terzo punto: dati i presupposti di cui sopra, l'unico modo per "uscire" dal sistema è evitare qualunque cosa prodotta "all'interno", qualunque luogo che sia "dentro". Significa gran parte della tecnologia, della merce e delle persone, nonché gran parte dei luoghi urbani. Divenire eremiti. Una condizione del genere, paradossalmente, se consegna all'eroico individuo che la conseguisse il diritto di dire la sua sul sistema "da fuori", lo priva al contempo di ogni strumento efficace di lotta.

"Ora finalmente possiamo parlare di Marxismo"

Dunque, ricapitolando, la risposta a M. potrebbe essere: il sistema non è fatto di cose, ma di persone, ed anzi di relazioni fra persone, di pratiche sociali, di desideri ed aspirazioni, della costruzione di un immaginario e di una temporalità. Nel momento in cui coltiviamo pratiche, desideri, relazioni ed un immaginario divergente, stiamo coltivando la possibilità di una variazione, stiamo allargando una crepa. Smartphone o non smartphone. Facebook o non Facebook. Il sistema non è coerente, e le sue contraddizioni possono essere il motore della sua successiva evoluzione o il seme del suo collasso. Sta a quelli che stanno "dentro", realizzare di avere una scelta lì dove si trovano, e che tale scelta non riguarda per forza la totalità del reale. Non è vero che la rivoluzione si fa in mezz'ora o non si fa affatto. Le crepe si accumulano, fanno del "dentro" un "fuori", permettono la circolazione e mettono in pericolo la solidità degli apparati di controllo e sfruttamento.



Il problema veramente spinoso è: perché M., che è una persona colta ed ha certamente letto Marx non fornisce questa risposta?
Il motivo è che M. parlando del sistema, vorrebbe avere davanti un nemico tangibile. Dopotutto, le sue lamentele davanti al bar servono a farlo sentire meglio, ad alleggerire la frustrazione addossandone la responsabilità a "qualcun altro". Non gli serve sapere per filo e per segno come funziona l'apparato di controllo, sfruttamento e distrazione che lo circonda (e comprende). Gli serve qualcuno contro cui puntare il dito. Per questo non può permettersi di rinunciare ai feticci che a sua volta alimenta (ricordate il discorso sui rettiliani di qualche post fa?).
In più, M. è un militante. Anche se magari potrebbe convincersi che il sistema non è fatto di cose, non lo si convincerà mai che non è fatto di persone. La rivoluzione che immagina è lo scontro di due volontà: la volontà del "sistema" di schiacciare gli individui, la volontà dei rivoluzionari di distruggere il sistema. Il paradigma dentro-fuori si ripropone. I secondi, con la loro ribellione istituiscono un "fuori" e lo amministrano. Lungi dal criticare la struttura fondamentale di questo pernicioso argomento, lo alimentano, e finiscono per diventare paranoici cercando di giustificare ogni singola compromissione necessaria, o cercando di evitarle tutte (stile di vita che richiede un dispendio di energie tale da essere incompatibile con qualunque serio tentativo di influenzare la società).

Ma la prossima volta che lo incontro glielo dico. E insieme andremo a menare L. Che è quello che si merita.


13/06/14

Ordem e Progresso

Ci sono i mondiali, che in Italia significa mondiali di calcio perché gli altri sport notoriamente non esistono.
I mondiali, per chi non lo sapesse, sono una manifestazione sportiva in cui ogni paese forma una squadra con i suoi giocatori migliori, poi quei giocatori giocano fra loro e alla fine una squadra vince. La metonimia vuole che con quegli undici (più le riserve, i tecnici, l'allenatore e via dicendo) sia l'intero paese a vincere: per questo motivo, quando ad esempio l'Italia vince i mondiali, una torma di giovani adulti, con il volto variamente pitturato ed il torso nudo si aggirano per qualche ora nei luoghi centrali e simbolici delle città, se va bene ululando, se va male suonando il clacson.


A parte fornire una prova concreta alla teoria del caos (una palla di cuoio che supera una linea invisibile a Berlino provoca ingorghi a Napoli, Torino, Milano e Roma), il mondiale serve a scaricare energie in eccesso e rancori accumulati, ed in generale ad avere qualcosa di cui parlare di qui a qualche settimana. E fin qui nulla di nuovo. Cosa si intende tuttavia per "scarica", "sfogo"? Quale è la caratteristica fondamentale della "passioni calcistiche"?
L'idea che mi sono fatto è che il calcio sia uno sport coinvolgente principalmente per il motivo che è molto caotico. Contrariamente ad esempio al tennis, o anche in qualche misura al basket, sport nei quali i più forti in genere vincono, nel calcio succede che i più forti non vincano (cosa che consente anche uno spazio larghissimo alle dispute su quali siano in realtà i più forti, un genere di dibattito nel quale i giovani italiani si allenano fin da piccoli). Proprio per questo, è possibile fare il tifo.
Potrebbe sembrare un controsenso: dopo tutto, non ci hanno forse spiegato che la sportività consiste appunto in questo, nel fatto che "vince il migliore"? La realtà è che il tifo è impossibile senza uno stato spirituale di trepidazione che a sua volta dipende dal fatto che non si può prevedere cosa succederà sul campo. Dunque si spera, ma anche si teme, e si pronostica freneticamente a vuoto, e si incoraggia, e ci si agita in quelle forme scomposte ed apotropaiche che sempre accompagnano i goffi tentativi dell'umano di dominare o avvicinarsi al kairòs, al caso, all'evento puro, imprevedibile.


Si comprende sulla base di quello che abbiamo detto anche la regola secondo la quale tali emozioni "calcistiche" diventano sempre più preziose man mano che la società industriale avanzata acquisisce potere sulle vite. Tanto più l'individuo si sente ingabbiato, stretto, costretto da una forma di vita prevedibile e regolare, tanto più la ricomparsa dell'incalcolabile, della casualità, del "destino" diventa una fonte di gioia in se, una dimostrazione, per quanto derisoria, del fatto che la realtà non si esaurisce in serie ripetitive e frustranti di azioni quotidiane, che c'è un di più, che c'è il sublime.
In un evento lontano, ma ossessivamente presente (su tutti gli schermi, in tutte le case) trova sfogo una serie di riflessi che l'essere umano ha progressivamente rimosso dalla propria "vita reale", trovano un referente le categorie di "eroismo", "sciagura", "trionfo". Il loro riapparire dall'altra parte dello schermo, non c'è bisogno che lo ripetiamo, è parte integrante della rimozione, ed assicura la passività del pubblico.


Veniamo ora al presente, a questo mondiale, e cerchiamo di leggerlo a partire da quei prodotti culturali ai quali spetta amministrare l'attesa, giustificarne la mastodontica inutilità eccetera.
In primo luogo, Giancarlo Giannini.


Lo spot è delicato, malinconico. Non parla di Brasile, di calcio, di campioni; parla invece di memoria, di immaginario collettivo (convenientemente rappresentato appunto dallo sguardo profondo ed un po' turbato di Giannini). Annuncia che anche quest'anno, come da tradizione, il mondiale consegnerà momenti memorabili.
L'evento sportivo in questo caso è un pretesto per un'emozione senile, la possibilità di ritrovarsi, la confortante ciclicità della vita che prosegue secondo la tradizione, sempre uguale. L'Italia che l'attore vede, passeggiando pensoso fra bambini che giocano a calcio e ragazzi con la maglia della nazionale, è un'Italia arcaica, l'Italia dei paesi che lasciamo al più completo degrado ed ai quali tuttavia torniamo quando dobbiamo ricostruire una mitologia nostalgica. Il mondiale, che arriva ogni quattro anni, sembra avere proprio questa funzione tipica del rito: nel restituirci il contesto di ricordi lontani, assicura che ve ne saranno di nuovi, che almeno questo non cambierà mai.
Dall'altro lato, oltre a ricordarci le virtù lenitive e confortanti di una ritualità collettiva, gli esperti di comunicazione del mondiale vogliono comunicarci un senso di attesa, di esotismo. Diavolo, si va in Brasile! E allora si ricorre a gallerie di facce brasiliane sorridenti, ragazzi che jogano capoeira, vedute suggestive, strizzate d'occhio alla storia calcistica (spot della Visa, con il ritorno in Brasile di Paolo Ross).


Gli spot di Sky (anche per la necessità di rivolgersi ad un pubblico assai più ampio di quello italiano) mettono in scena un Brasile favolistico, ricostruito. Si gioca sugli stereotipi: l'allegria carioca, la cordialità, il colore... Nulla di nuovo.
Lo spazio della rappresentazione sembra dunque disposto: un paese  che guarda un altro paese. La finzione si dispiega su entrambi i lati della rappresentazione televisiva: un paese finto, redento, depurato dagli aspetti contraddittori, ridotto al santino cattolico/catodico della famiglia davanti alla TV, e dall'altra parte dello schermo un paese pacifico, festoso, entusiasta. Fin qui lo spettacolo.

Come abbiamo detto, tuttavia, il bello del calcio è l'inaspettato, l'inquietante possibilità di un errore. L'evento puro, le cui cause sono innumerevoli (e servono appunto ad essere contate e confrontate nei bar del pianeta).
E però capita che una struttura simile, un evento indominabile, non si lasci rinchiudere in uno stadio.


Lo spot di Amnesty fa saltare la prima regola della creazione dell'immaginario: l'isolamento preventivo dalla realtà. Mette in scena gli scontri, nel senso che li ammette nella scena per eccellenza dei mondiali: il campo di calcio. Sembrerebbe una operazione meritoria, ma finisce per rovesciarsi.
Nel momento in cui gli scontri sono rappresentati come una partita, scompare il motivo reale, sociale, politico della loro esistenza. Diventano incomprensibili, un "gesto sportivo". Ed è proprio in forza dello "spirito sportivo" che si chiede meno violenza alla polizia (ed ai manifestanti?), come se quello in cui sono impegnati fosse un confronto regolato, sostanzialmente pacifico, spettacolare, che deve quindi adattarsi ai requisiti della visibilità.
Lo slogan "Il mondo sta guardando" suona particolarmente ipocrita: se dovete ammazzarvi fatelo fuori dall'obiettivo dei fotografi. Poliziotti, fate fuori i manifestanti dopo, o prima, ma non durante i mondiali: fa un brutto effetto ai turisti.
In ultimo, va rilevata l'agghiacciante immagine dei poliziotti che dopo aver percorso il campo distruggendo fisicamente gli avversari, avanzano verso la porta, segnano ed esultano. Proprio in quel punto, c'è da imparare una grande verità che le piazze nostrane non hanno mai colto: se la lotta si spettacolarizza, in genere la polizia vince.


La scena del mondiale si incrina (si formano crepe): lo spazio neutralizzato del campo di calcio torna ad essere sempre più un pezzo di un paese disastrato e sempre meno un teatrino ad uso delle nostre memorie.
E a me dispiace un sacco per Giancarlo Giannini, ma quello che ricorderemo per sempre stavolta non è una prodezza in azzurro, ma la violenza spietata e selettiva, corporativa ed efficace del governo brasiliano e della FIFA, le opacità legali, lo spray urticante, lo scontro con i sindacati ed il blocco della metropolitana di San Paolo.
L'evento, questo motore inconoscibile, polo erotico della passione calcistica è uscito dal campo. Ciò che veramente accade è fuori, nelle strade, e non urla (passività frenetica) per incoraggiare la nazionale, ma per se stessi e la propria nuda vita calpestata e rimossa perché scandalosa.
La metonimia è fallita, ed un'altra subito la rimpiazza: il Brasile non partecipa ai mondiali. Il Brasile li combatte. Il Brasile non ha vinto, ieri. Il Brasile ha perso, e perderà, e perderà ancora, rappresaglia dopo rappresaglia, sgombero dopo sgombero. I "ricordi che ti porterai per sempre" sono falsi.

The price of the world cup

John Oliver

05/06/14

metafore #1

Prendiamo una metafora. Una bella metafora succosa, una di quelle che passa di bocca in bocca, che viene declamata con le adeguate pause e poi ripresa nei titoli di testa dei giornali. Una delle metafore che ha deciso il risultato delle ultime elezioni europee, e che è stata usata non poco nel commentarne il risultato.

Questo è un derby fra la rabbia e la speranza

L'autore è sconosciuto, la faccia è di Matteo Renzi, la metafora è una variante ad hoc di uno standard della politica italiana

la politica è il calcio

Inaugurata da Silvio Berlusconi fin dal suo primo apparire sulla scena pubblica (i.e. Discesa in campo), essa era probabilmente intesa all'inizio come un modo di esibire l'estraneità dell'oratore al vecchio e stantio gergo della politica, e la sua vicinanza agli interessi veri e sinceri dello spettatore (il calcio, come anche in altre occasioni il sesso o i soldi). Allo stesso tempo, proferita dal presidente del Milan, portava l'attenzione sulle qualità dirigenziali dello stesso. Innestandosi sull'altra fondamentale metafora del partito-azienda, la metafora calcistica rendeva chiaro fin da subito il carattere dell'impegno politico del compianto Lìder, come i suoi ancora amano chiamarlo



Le metafore funzionano quando le immagini sovrapposte sono abbastanza coerenti da far sembrare sensata la sovrapposizione dell'una all'altra. La loro funzione principale nel discorso politico è quella di rimuovere elementi di complessità, riducendo l'impegno intellettuale necessario a comprendere la situazione e al contempo consentendo una identificazione emotiva dell'interlocutore che risulterebbe impossibile a partire da una descrizione (che si sforzasse di essere) neutrale/letterale della situazione.
La metafora calcistica assolve ad entrambe le funzioni, e penetra a fondo nella coscienza degli italiani. Proviamo dunque ad analizzarla.
Una partita di calcio è un gesto sportivo, governato da regole, nel quale due squadre si contendono alla pari la vittoria, che dipende dalla prestazione, dall'arbitraggio, dalle condizioni atmosferiche e non poco dalla fortuna. I giocatori sono dei professionisti. L'adesione emotiva degli spettatori alle sorti dell'una o dell'altra squadra dipende spesso da una lunga abitudine (spesso trasmessa per generazioni) ed è sempre priva di un motivo razionale. Gli spettatori, a parte questa adesione, non hanno nessun rapporto con ciò che accade dentro il campo. Il motivo principale per cui si giocano le partite è lo spettacolo. La vittoria e la sconfitta, hanno grande valore emotivo per il pubblico, grande valore economico per la società sportiva, e si riflettono sulla carriera sportiva del calciatore, ma al di la di questi effetti consistono essenzialmente in un simbolo, spesso a forma di coppa, che serve a dare senso allo sforzo del gioco.



Queste caratteristiche assolutamente banali del rituale collettivo che chiamiamo "partita", se prendiamo sul serio la metafora di Renzi, dovrebbero riprodursi nel rituale collettivo che chiamiamo "elezioni". Si fronteggiano due squadre sostanzialmente omogenee dal punto di vista delle pratiche (Come i calciatori, i politici giocano più o meno lo stesso gioco, che si chiama "comunicazione politica" e una volta si chiamava "propaganda", obbediscono entrambi ad una serie di convenzioni, hanno alle spalle una società sportiva la cui struttura è sostanzialmente la stessa, chiamata "partito" o "movimento"). A prescindere dalla essenziale differenza delle maglie (la differenza superficiale deve risultare massimamente visibile) i candidati giocano lo stesso gioco, che è però un gioco comunicativo. Devono collaborare per non contraddirsi all'interno dello stesso partito, e gareggiano secondo regole (par condicio, non si insulta Napolitano).
La comunicazione o propaganda politica, se si deve dare retta alla metafora, non è una questione di idee, ma di abilità, di fantasia. Vincerà il più bravo, non perché aveva ragione e gli è stata riconosciuta (dopotutto, non stava dicendo nulla) ma perché è più bravo. Il modello è quello incredibilmente nuovo del sofista platonico, non evocato esplicitamente, ma implicitamente attraverso l'accostamento: l'azione sportiva è un gesto autoconcluso, che non si riferisce a nulla, il cui valore si giudica dall'effetto. Come il discorso pienamente retorico.

Gorgia da Lentini
Il momento in cui tuttavia possiamo arrivare a toccare il vero genio, è quando consideriamo i due riti collettivi "partita" ed "elezioni" secondo il rapporto fra il pubblico/popolo ed il campo di gioco. Anche se a volte uno stadio pieno di supporters può mettere il fuoco nelle gambe di una squadra, in buona sostanza (invasioni di campo a parte) il pubblico non deve né può intervenire nella partita. Il pubblico, passivo ed inessenziale, agita bandiere. I giocatori, attivi, muovono le gambe e calciano.
Alle elezioni, il pubblico fa non solo la parte del pubblico, ma anche quella del campo e della palla: i politici si rimandano l'un l'altro argomenti destinati a catturare l'attenzione (si potrebbe istituire, parallelo al "possesso palla" il parametro del "possesso di attenzione", ed in qualche forma è stato fatto) conquistano posizioni non sul terreno, ma nell'indice di gradimento. Perché la metafora regga, tuttavia, è necessario che il pubblico rimanga tale, ovvero passivo. Se il popolo avesse sul serio una volontà, se la palla volasse a destra e a sinistra non reagendo ai calci ma per una sua libera scelta, o fosse tanto fissa da non riuscire a sviarla, come si potrebbe giocare? La palla ed il campo, nonostante siano essenziali allo svolgimento del gioco, devono rimanere passivi.

Freneticamente passivi

Proprio in questa crepa si infila la metafora calcistica di Renzi, aprendo a nuove, inaspettate prospettive.
Non dice "questo è un derby fra Noi e Loro", disponendo una scena che metterebbe "in campo" i partiti ed i personaggi, per vedere chi di loro conquista il cuore (la porta) e l'attenzione (la palla), o riesce ad irretire l'attenzione (la palla) portandola verso argomenti lagrimevoli e sovraccarichi emotivamente (la porta).
Nella metafora di Renzi ad affrontarsi sono due emozioni, due atteggiamenti: la speranza e la rabbia. Sembrerebbe un ingresso nel mito: la squadra-partito che si identifica con l'emozione di cui si fa portatrice. Dobbiamo immaginare Renzi speranzoso e Grillo arrabbiato? E' qui il senso della metafora? Io non credo. Come abbiamo visto, una delle differenze specifiche e difficili da esorcizzare che mette a rischio questa  metafora, è il fatto che il popolo svolge alle elezioni una quantità di ruoli che eccedono quelli del pubblico calcistico, e a ben vedere le squadre in campo non arrivano mai a confrontarsi se non attraverso il medium del consenso popolare.
Renzi fa dunque il passo ulteriore che ricuce questa metafora ormai lisa: la rabbia è quella "della gente", e così la speranza. La speranza della gente incarnata da Renzi e la rabbia della gente nei confronti di Renzi, incarnata da Grillo devono confrontarsi direttamente. Abbiamo l'elettore come terreno di gioco, le sue emozioni nel ruolo di giocatori, e la coppia Renzi-Grillo ridotta a poco più che simboli psicanalitici, figure vuote sulle quali proiettare ciò che è davvero importante: Tu.

Tu
Ciò che Renzi dice è: voi dovete vincere voi stessi, vincere le vostre emozioni negative ed affidarvi alle emozioni positive. Io sono la vostra speranza. Lui è la vostra rabbia. Non vorreste non essere più arrabbiati? Bisogna eliminare la rabbia. Non vorreste sperare di nuovo? Avete bisogno di me.
Il discorso retorico non fa che mimare il processo di pensiero che vuole suscitare. Lo incolla sopra una metafora, per fingere di stare parlando di qualcosa, ma il suo funzionamento è ben più subdolo.
Spera nella speranza. Odia l'odio.
Basterà a salvarti, dal momento che il mondo funziona interamente a tua immagine e somiglianza, e la sua complessità è perfettamente comprensibile nei termini di una economia emotiva booleana.

04/06/14

Il setaccio

L'altro giorno, mentre eravamo esattamente immobili al centro delle strisce pedonali (io dovevo andare da una parte, lui dalla parte opposta) fra me ed un mio amico è nato un discorso politico.
Ricordo bene che, poco prima che il tram numero 15 ce lo portasse via per sempre, ancora mi diceva “certo, tutto questo è una mia opinione, ma...”

il tram numero 15. Scary stuff.
Sulle prime ho pensato che questo secondo post avrebbe potuto parlare di politica. Ho anche pensato ad un discorso introduttivo sull'argomento, che spiegasse fino a che punto quello che scrivo è “solo tutta una mia opinione”. Poi mi sono dato del codardo. Quindi mi sono chiesto perché ed infine mi sono risposto che non tutto quello che penso dovrebbe sembrarmi contrattabile, e che dovrei riconoscere la mia ignoranza quando me la ritrovo davanti piuttosto che opinare senza un pensiero al mondo avendo messo da prima le mani avanti. A quel punto, dopo esserci dati reciprocamente del cretino e del saccente, i rapporti fra me e me erano del tutto compromessi.
Di scrivere un post sulla politica, non se ne parlava.
Quindi, come è d'uso in questo paese nelle situazioni d'empasse o di emergenza, in questo post si parlerà invece di opinioni, di metafore, ed in definitiva di chiacchiere.


Se c'è qualcosa sulla quale tutti concordano, a proposito delle parole e delle opinioni, è che ce ne sono troppe. Si affastellano, riempiono ogni possibile pertugio, si moltiplicano ossessivamente. C'è sempre qualcuno che ha detto qualcosa su qualcos'altro, e un terzo che lo riporta, che si tratti dell'opinione banale dell'uomo importante su un argomento triviale, sia che si tratti dell'opinione altrettanto banale del “passante qualunque” o “comune cittadino” (il quale parla attraverso un' intera folla di interpreti più o meno qualificati) sulla situazione generale.
Come comportarsi, dunque? Saremmo dei folli a pensare di sbrogliare la matassa, distinguere il giusto dallo sbagliato, "spremere il succo", "arrivare al dunque".
Dopo tutto, abbiamo schierati contro dozzine di ottimi giornalisti la cui professione sembra essere quella di accelerare il flusso di notizie disponibili. Il giornalista (in particolare quello televisivo) si procura raffiche di risposte banali, tentando di chiudere in uno stereotipo (che preferiscono chiamare “frame”) il suo oggetto, sia esso persona, fenomeno sociale. Riporta un ping-pong di commenti incrociati, botta e risposta elicitati ad arte. “X ha detto che lei è un cretino, lei sarebbe d'accordo a definirlo un imbecille?”, e mentre dichiara di stare cercando di “fare luce” sui fatti si assicura sempre il finale più edificante e scandaloso possibile, perché in fondo sa che le notizie non interessano a nessuno, quello che conta è la storia. Se una qualche parvenza di equanimità deve resistere per sostenere retoricamente la funzione dell "informazione" la si affida ancora una volta alla moltiplicazione: come se due storie di segno opposto producessero incontrandosi nella testa dello spettatore la realtà doppiamente rimossa, e non una contraddizione destabilizzante.
I lettori, dal canto loro, leggono i giornali per sapere di cosa parlare o per trovare qualcuno che argomenta con dovizia i propri pregiudizi, e guardano la TV per parlarne al bar; paradossalmente, gli unici che leggono sul serio i giornali sono i giornalisti, ed ogni genere di persona che sopravvive contribuendo la proliferazione dello spettacolare diffuso.



Di fronte ad un tale fluire vorticoso, non ci resta che immergere bene a fondo il nostro setaccio, e sperare che qualcosa vi rimanga fermo, che le reti rigide trattengano almeno un briciolo di sostanza, un' immagine, un' idea.
A cosa può servire? Non di certo a capire la direzione dell'acqua o la sua velocità, e nemmeno ad indovinare le complesse interdipendenze fra il terriccio ed i liquami che trasporta. Al più, ad indovinare un passato particolare, geologico, una verità solida che ha dovuto essere ridotta in polvere e fanghiglia per facilitarne la circolazione.
Non ci interessa la verità relativa, indicare chi abbia ragione su cosa, e nemmeno rivelare l' enorme mole del rimosso, il non-detto che informa i modi isterici di dire tutt'altro (è questo un compito che lasciamo volentieri a studi più seri). Vogliamo cogliere in fallo la macchina dello spettacolare diffuso, non nel senso di coglierla a dire il falso (che altro è lo spettacolo se non il continuo emergere dell'incoerenza, della falsità, la sua successiva smentita, e lo scandalo, e la condanna severa, e l'insospettabile colpevole...) ma nel senso di coglierla a dire suo malgrado la verità.

Continua