21/12/14

Sapere ed impotenza

C'era una volta, nemmeno tanto tempo fa, un adagio che diceva: "sapere è potere". Era un adagio famoso, dalle molte conseguenze. Si poteva usare per riferirsi al fatto che l'ignoranza porta a considerare naturali cose che in realtà non lo sono, e cadere così vittime di raggiri di individui più scaltri. Poteva significare anche che attraverso lo studio ci si assimila, pur provenendo da una classe sociale inferiore, ai rampolli di famiglie ricche ed educate. Poteva significare, persino, che attraverso la scienza e la tecnica - generi specifici di sapere - si sviluppa un vero e proprio potere sul mondo, la capacità di modificarlo e trasformarlo.



Il post di oggi riguarda la crepa che la contemporaneità forma fra questi due termini. Come quasi sempre, si tratta di un argomento enorme trattato con una certa fatuità, senza conclusioni nette e con l'aria di stare disegnando figure sull'acqua. Ma spero mi perdonerete, dal momento che l'altro atteggiamento possibile trattando di cose come queste è quello di un catastrofismo urlato e tutto sommato presuntuoso, atteggiamento da cassandre (e forse avremo anche il tempo di spiegare per quale motivo la cosa sarebbe fuori luogo, essendo tale spiegazione collegata al tema di oggi).


"Il Jobs Act non è una buona idea!"

La crepa, dunque, fra potere e sapere. Come abbiamo visto, vi sono almeno tre significati secondo i quali il sapere è potere. Cominciamo dal secondo, il più semplice, ovvero dal fatto che attraverso una certa educazione si riesce a conseguire la promozione sociale, scavalcando così la condizione dei propri genitori.
L'imbarazzo nel dover spiegare come mai ciò è falso deriva solo dalla piena evidenza della cosa: se c'è qualcosa che da tutte le parti non smettono di dirci, è che con la cultura non si mangia. Figurarsi se ci si arricchisce. Semmai, ci dicono i fini conoscitori dell'umano che sono i politici di destra e gli interpreti della cultura imprenditoriale italiana, essere colti è segno di spocchia, presunzione. Poca voglia di lavorare. Ad essere pragmatici, bisogna riconoscere che la laurea giusta non riguarda il sapere, ma il saper fare, e anche per metterla a frutto serve la proverbiale zampata in culo.

Grazie papà

Ciononostante, tale mito è ancora attivo, e ricade interamente sulle spalle di quei genitori che, cresciuti quando era ancora vero che una laurea facilitasse il percorso di inserimento in una vita confortevole e piccolo-borghese, proiettano questa cosa sui figli. Questa dinamica si chiama: bolla dell'istruzione. Solo che non è una "bolla" nel senso in cui erano "bolle" alcuni fenomeni del mercato finanziario, che crescevano e crescevano per poi "scoppiare" nel nulla. Questa bolla in particolare, è un bubbone, una grossa escrescenza piena di carne che va a male. La carne di tutti quelli che si ritrovano poi ad un certo punto a spasso.



Passiamo dunque al secondo punto: non farsi fregare. A tutta prima, potrebbe sembrare un ottimo argomento. Se sei sveglio e sai leggere la realtà, ecco che ti trovi su un piano favorevole rispetto a coloro che non sanno farlo. Ecco che dal sapere segue un potere, una maggiore efficacia nei movimenti, nelle decisioni...
Purtroppo, non è così. Perché in realtà la gamma di cose che puoi fare, se non disponi già di un potere, è limitatissima. E nessuna delle opzioni che si presentano è particolarmente furba. Per chiarire meglio, confronta la situazione in cui è in atto una truffa e quella in cui è in atto un ricatto. Nel primo caso, hai di fronte l'esca di un vantaggio imprevisto ed irrealistico, che dovrebbe indurti a pagare per poi rimanere con un pugno di mosche. Se sei sveglio, capendo che il vantaggio proposto è implausibile, non paghi e sei salvo: bravissimo!
Nel caso di un ricatto, qualcuno detiene un potere assoluto su qualcosa di cui hai necessità assoluta (o non puoi rinunciare), e detta le sue condizioni. Se sei sveglio, sei solo in grado di capire meglio e formulare con termini più esatti quanto sei fottuto. Bravo.



Terzo punto, ed apparentemente il più solido dei tre: attraverso il sapere tecnico-scientifico l'uomo è riuscito a compiere grandi cose. E' arrivato sulla luna. Ha fatto esplodere Nagasaki. Ha mostrato a miliardi di persone il culo di Rihanna. Difficile contestare tali conseguimenti: dietro ognuno di loro vi erano fior fiore di cervelli all'opera per cablare il pianeta, giocare con gli atomi, calcolare traiettorie...
Eppure, ancora una volta, devo venire a rompervi le uova nel paniere.
Perché ciascuno di quei cervelloni aveva un unico potere: quello di presentarsi in ufficio verso le nove, far sudare il cervello su numeri e grafici, e manipolare materiali rari, ed uscire verso le nove. Gli effetti reali e concreti delle loro ricerche e studi avevano l'unico scopo di accrescere il potere disponibile di chi aveva il potere: in genere industriali, politici e generali. Nonché Rihanna.



Per farla breve: abbiamo dimostrato che il vecchio adagio "il sapere è potere" è falso, come che lo si voglia intendere. Ma c'è di più. Nel tempo ha cominciato a valere la formulazione inversa: "il potere è sapere". (considero il potere definito in termini di ricchezza e status sociale. Se mi trovi vago rileggi il post "potere e potenza"). Facciamolo ancora una volta in relazione ai tre aspetti visti prima.

Il potere è sapere nell'educazione. I rampolli di famiglie della nuova aristocrazia, come è noto, non hanno bisogno di studiare, ma se lo fanno lo fanno alla grande: preferibilmente all'estero, e necessariamente in scuole costosissime e d'eccellenza nelle quali incontreranno amichetti che diverranno pure loro persone importanti. La selezione sociale avviene all'ingresso, non in uscita, e men che meno a seconda di quanto si è imparato. Il sapere - di qualità - deriva dal potere - dei genitori. Si chiama scuola - o università - di classe, e fa parte del progetto politico che sembra muovere ogni successiva riforma della scuola.



Il potere è il presupposto del sapere anche nella sfera dell'efficacia lavorativa e del successo personale. Per affrontare questo punto controverso, devo fare un esempio: vi basterà ricordare l'ultima volta che avete visto un giornalista qualunque chiedere ad un personaggio famoso - di successo - qualunque qual'è "il suo segreto". Ora, è evidente a chiunque che data la caratteristica della società - italiana ad esempio - è veramente difficile che il successo o la fama o la gloria o il denaro derivino dal conoscere un segreto. All'opposto, avere queste cose fa si che gli altri credano all'esistenza di un segreto. Il "segreto del successo", appunto. Si attribuisce ogni successo (casuale? Sospetto? Sostenuto da amicizie importanti?) ad un genere di sapere arcano, che di certo non fa parte di quel sapere che si studia o che si apprende sui libri o con l'esperienza (dato che alcuni dei personaggi di successo ai quali la domanda viene rivolta hanno evidentemente la cultura di una pietra e l'esperienza di un cavalluccio a dondolo). Un ulteriore esempio di questa "cultura" fantasmatica che dovrebbe informare il potere e non ne è che il miraggio è la lotta spettacolarizzata di giovani avvoltoi in carriera per diventare "apprendisti" di Briatore. Per apprendere cosa?

Epistemologia, apparentemente

Da ultimo, il potere ed il sapere tecnico scientifico. Qui un potere c'è davvero. E discende davvero da un sapere, come abbiamo visto. E tuttavia dal sapere di qualcuno dipende il potere di qualcun altro. Badate bene: non è questa una caratteristica accidentale o occasionale, ma la vera chiave di volta del concetto contemporaneo di sapere. I saperi non trasferibili, vale a dire quelli che non sono immediatamente utili a chi non li possiede, come quello del filosofo, che può essere enunciato ma che ognuno deve poi saper ripercorrere da se, o del maestro zen, o del letterato, sono immediatamente squalificati. Non servono a nulla, in un mondo in cui a dichiarare l'utilità di questo o di quell'altro è l'operatore unico ed universale, vale a dire l'imprenditore, in base alla razionalità che lo autorizza: la logica della produzione ed accumulo di ricchezza.
Siccome in qualche misura è vero che il sapere produce potere, è buona norma separare chi sa da chi può, impiegare i primi in condizioni di controllo assai stretto e separarli immediatamente dai risultati del loro sapere. Chi poi si occupa di un sapere che è indistinguibile dai suoi effetti, è tout court inutile, se non pericoloso, e va emarginato e deriso.
Deve avverarsi quell'adagio - che è naturalmente falso, ma che è un fermo impegno del sapere biopolitico far avverare - secondo cui un sapere è indipendente dall'uso che se ne fa. Tradotto: per dominare la rivoluzione permanente dei mezzi di produzione senza far vacillare il dominio sui mezzi di produzione bisogna rendere l'intelletto indipendente dai soggetti che si occupano di generarlo, farne una merce qualunque. Denaro - sapere - denaro.



Così siamo dunque arrivati a definire, per la correlazione sapere - potere, una torsione simile a quella che il capitalismo impone al rapporto fra merce e denaro.
Tuttavia, rispetto alla teoria marxista, il discorso di oggi è singolarmente più circolare. Lì il sapere, la teoria, aspirava non solo ad interpretare, ma a cambiare il mondo (e lo ha fatto, forse non nel modo previsto ma lo ha fatto, almeno per un po'). Qui, invece, una conseguenza del sapere come funziona il meccanismo è esattamente la consapevolezza che sapere come funziona non cambia una virgola.
Rende solo il tutto un po' più doloroso.

P.S. riguardo al contenuto di questo post si accolgono con entusiasmo critiche e smentite, da chiunque sappia come trasformare in potere un sapere senza vendere o affittare il sapere stesso.

16/12/14

Note sulla società dello spettacolo

Quando ho aperto questo blog, non pensavo che avrei parlato di libri. Anzi, avevo espressamente deciso che non avrei parlato di libri. Né di musica, di politica, di fenomeni di costume, di moda, di economia.
Tutti questi paletti, che mi ero posto un po' coscientemente e un po' no, servivano a costruire la possibilità di un discorso ulteriore: l'idea era che le crepe di cui avrei voluto occuparmi non sono da cercare nella letteratura, nelle spigolature simboliche giornalistiche, nella espressione artistica. In preda ad un pregiudizio un po' marxista, mi ero persuaso che l'essenziale tende a sfuggire alla rappresentazione, e tutti quei casi in cui una cornice definisce il bordo esterno di un oggetto culturale sono già, per loro natura, casi di neutralizzazione dell'essenziale. Proprio per questo si devono cercare le crepe: perché una volta prodotta una rappresentazione della realtà da essa rimane escluso proprio ciò che la rende possibile, lo spazio fra l'occhio e l'oggetto. Ed è lì che c'è una crepa. Cercarla, per renderla una faglia attiva, è fra le altre cose un esercizio di spersonalizzazione, una teoria del dubbio e della crisi che non porta al pensiero debole, ma a riconoscere come germe del pensiero la forza di una componente impensata-impensabile.



Da ciò, il particolare stile contorsionistico che anima crepe, il tentativo di guardarsi di profilo che mi costringe a queste considerazioni continue di stile, che continuano a coinvolgere me, soggetto teorizzante, nella portata della teoria, e che producono discorsi ondivaghi, basculanti. Se mi si permette una metafora: rileggendomi, mi sembra di stare assistendo allo srotolarsi sulla pagina di un discorso che aveva una sua coerenza circolare proprio perché rimaneva arrotolato su se stesso, e solo fino a quando tale fosse rimasto.




A dispetto di tutto ciò, coltivando la serena abitudine di tradirsi sempre, oggi parliamo di un libro.
La società dello spettacolo è un libro. Un libro di Guy Debord, pubblicato a Parigi dalle edizioni Buchet-Castel nel novembre del 1967 e reso famoso dai moti del '68.
Si tratta di un libro particolare, inestricabilmente coinvolto in un atteggiamento intellettuale, politico, diagnostico ed artistico che al giorno d'oggi risulta difficile persino da pensare. Si tratta dello sguardo più acido e penetrante sulla metamorfosi in atto - allora, oggi può dirsi compiuta - della società e del regime di pratiche simboliche che ci permette di definirla tale. Si tratta anche di una lettura che produce, a distanza di quasi mezzo secolo, un effetto paradossale.



Il lettore odierno di Debord non può permettersi il lusso di derubricare le sue parole, né di metterle in dubbio: vive con maggiore consapevolezza ed intensità dell'autore la realtà descritta. Non impara nulla, si limita a riconoscere quelle idee che ha di necessità sviluppato o assorbito in forma meno esatta. Eppure rimane colpito: quello che è oggi normale, evidente, pacifica realtà rimbalza sulla pagina di Debord sotto il segno del nemico. Tutto quello che viviamo, pensiamo, desideriamo, e il modo in cui articoliamo ciascuna di queste attività e l'una sull'altra, risulta parte di una torsione, di una tensione perfettamente integrata nello spettacolo. L'unica vera scoperta è che si tratta di una trappola: sapevamo di starci dentro, ma non avevamo realizzato, fino a questo momento, di essere prigionieri. La finezza, dice Debord, è esattamente questa, l'inversione costante e paradossale delle realtà basilari dell'esistenza. Questa è l'arte del nemico.



A partire dalla Società dello spettacolo diventa finalmente comprensibile, anzi persino ovvia, quella particolare caratteristica della merce nell'età contemporanea, ovvero la sua natura intrinsecamente simbolica. Il feticismo della merce conosce nuove vette: la merce, la cui natura è ormai compiutamente simbolica, vale più per ciò che significa che per l'uso che può farsene. Anzi, la cosa è persino più complicata, dal momento che la componente dell'uso viene assorbita da un uso simbolico.
Banalmente ciò significa che nella società dello spettacolo la merce serve a definire ruoli sociali, viene investita di significati molteplici: si vende tanto la ribellione quanto la simpatia, la seduzione, la libertà eccetera.
Le conseguenze sono molteplici:

1) il capitalismo spettacolare non è un contenuto, ma una forma. Non agisce imponendo una narrazione, una serie di regole o valori, quanto trasformando il vocabolario. Puoi ancora essere ciò che vuoi, esprimere ciò che vuoi, solo che ora dovrai farlo passando di necessità dalla merce - ciò crea alcuni effetti collaterali e residui, quando la ribellione alla merce si trova a dover passare essa stessa attraverso la merce.



2) Per essere accettato, il capitalismo come regime di senso deve sabotare tutti i regimi di senso concorrenti. Non lo preoccupa la critica: sa che non c'è critica teorica che possa scalfire un regime di pratiche. Lo preoccupano i regimi alternativi e funzionali di pratiche. Verso di essi, egli agisce - meraviglie dell'inversione e del paradosso - con un'aggressività totale, che si manifesta come entusiasmo. L'incarnazione del capitalismo, la sua ipostasi meglio rappresentata, è il manager che arriva dal giovane artista ribelle, e gli comunica con le stelline negli occhi che lui, l'artista, è una grande star, e che è assolutamente necessario farlo conoscere al grande pubblico. La vittoria del capitalismo sui regimi di senso concorrenti assume sempre la forma di una vittoria di tali regimi di senso nel contesto del capitalismo.


Non ti aspettare, quando parli con chi detiene il potere, di dover affrontare una serie di menzogne. Le menzogne sono roba rozza, superata. Invece, preparati a cambiamenti repentini di frame, a seduzioni, a vittorie ben congegnate per ridurti all'impotenza, ad opposizioni retoriche fittizie. Come dice il Batman di Nolan, uno dei più bei pezzi di propaganda della società industriale avanzata: o muori da eroe - e gli lasci l'agio di fare quello che vogliono con la tua immagine, come il Che sulle magliette - oppure vivi tanto a lungo da diventare il nemico.

Per questo esiste Crepe, per individuare uno spazio di pericolo ed instabilità fra l'insoddisfazione e l'euforia, fra il fallimento e l'autodistruzione. Una forma di vittoria sconosciuta persino al pensiero penetrante ed acido del compagno Debord.

08/12/14

Oltre

Oggi parliamo di un'atteggiamento odioso, di alcune caratteristiche del rancore, delle conseguenze dell'insicurezza e di una serie di metafore curative.
Ma andiamo con ordine
Tranquilli. E' un po' contorto, ma è tutta scena. Tante svolte e nessun incrocio.

Innanzitutto, cari lettori, vi devo delle scuse. Sono stato prolisso, inutilmente facondo, e ultimamente anche un po' triste. Non era nelle mie intenzioni, ma certe cose succedono. E, come con tutte le cose che succedono, la cosa migliore è farne un pretesto per una azione: dopo tutto, se non siamo padroni di ciò che ci succede, siamo padroni di ciò che ne facciamo - l'ho letto da qualche parte, probabilmente era sulla bacheca di facebook di un mio amico che si fa di ketamina.
Il fatto è che inevitabilmente, nello scrivere, si incappa in una serie di lacci e lacciuoli. Ciò che si mette sul foglio esercita una certa forza gravitazionale verso ciò che rimane da scrivere, ne determina il modo ed anche il contenuto. Oppure, al contrario, una forza di esclusione: ogni apparizione è l'inizio di una rimozione. E' di questo che si compone un atteggiamento, di ciò che compare e di ciò che scompare ogni volte che si cerca di mettere tutto in chiaro.



Del destino derisorio di chi cerca di spiegarsi si può fare indifferentemente materiale da commedia o da tragedia. D'altronde, come è noto, gli equivoci e le menzogne sono la materia prima del mito, della narrazione, dell'identità e della politica.
All'opposto, l'atteggiamento tipico di intellettuali, scienziati, giornalisti, esperti e tecnici in genere può essere definito proprio a partire dall'ignoranza di questa basilare realtà, vale a dire del fatto che non è così ovvio controllare ciò che si dice. Tutte le categorie sopra dette, sulla base di una serie di assunti, regole, codici e procedure, sono in grado di esercitare un certo controllo sopra il proprio oggetto di studio. Cosa ci vuole? Basta un po' di attenzione al lessico, alla forma, ai dettagli e tutto sarà chiaro!

Tutto chiaro?


Secondo qualcuno, si tratta di un atteggiamento collegato alla modernità: a partire dall' enciclopedia di Diderot e D'Alembert in fondo non abbiamo cercato che questo, mettere nero su bianco tutto ciò che c'è. Riassumere le leggi fondamentali e le categorie generali, fare chiarezza, sbrogliare la matassa. Con calma, metodo ed intelligenza avremmo ad un certo punto rivelato il rivelabile. Non c'è motivo per cui attraverso un serio sforzo in buona fede non si possa arrivare alla verità.



Ora, potremmo ripercorrere tutte le delusioni, illusioni e batoste alle quali un tale atteggiamento è andato incontro, le svolte epistemologiche, eccetera. Però, per non annoiare nessuno, tagliamo dritto e andiamo subito al dunque: questo atteggiamento prima o poi fallisce. "e allora" voi mi direte "perché scienziati, tecnici, esperti, intellettuali eccetera continuano ad esistere? Non verrai a dirci che la scienza è una bufala, come un qualunque texano bigotto".



No, amici. Non voglio sostenere la falsità della scienza. Con le loro precauzioni, il loro metodo sperimentale, le loro riviste, le loro revisioni bizantine gli scienziati possono senza dubbio reclamare un buon diritto su alcune verità. Per essere precisi, su una classe di verità definita proprio dagli strumenti impiegati. Ed è una classe di verità che riguarda assai poco l'essenziale. Finché se ne rimangono nel loro campo (e le regole epistemiche del campo in questione non cambiano) gli scienziati, gli esperti ed i tecnici possono stare tranquilli. Il problema, tuttavia, è che mentre un atteggiamento ed una forma mentis come quella descritta è difficile tanto a formarsi che a perdersi, la necessità di oscillare fra spazi con regole epistemiche diverse è costante.



Così, spesso, spunta l'esasperazione. Come si potrà tollerare che, mentre nei laboratori di fisica applicata tutto è contabilizzato fino al micron, e i calcoli vengono replicati ancora ed ancora per verificarne l'esattezza, altrove, e per di più in luoghi nei quali si decide della vita delle persone, si continuino ad usare concetti vaghi, ideologici, bucati. Lo scienziato che sente parlare di equità e democrazia, ad esempio, si irrita se non può dare a tali parole un valore tecnico, preciso. Cosa in generale difficile a farsi. L'effetto che gli fa la politica, il marketing, la narrazione, è spesso quello di una grande e sconcia mistificazione. Vale lo stesso per i giornali, grandi eredi dell'illuminismo, che infatti da tempo fanno dello scandalo il loro marchio di fabbrica.



Quali sono gli effetti psichici di un tale atteggiamento? Principalmente due: rancore ed insicurezza. A seconda che ci si senta forti o deboli, coraggiosi o pavidi, si finisce per considerarsi paladini della verità in un mondo popolato di lestofanti, mistificatori e malafede diffusa, oppure per darsi la colpa di tutto e cadere in depressione (o nel cinismo più estremo).
Nei casi più gravi, l'esigenza irrisolta di risolvere l'essere umano una volta per tutte porta ad un salto di fede (vale a dire la rottura di quelle precauzioni e procedure di cui si compone la razionalità), poco importa se tale fede venga riposta negli alieni, nel comunismo, nel signore, nel buddhismo, in Giancarlo Magalli, nella dieta vegana.




La questione di oggi, di fronte all'ennesima ambivalenza, è dunque: come si sopravvive all'eredità della modernità e insieme alla complessità della realtà contemporanea? Come ci si comporta fra l'incudine della globalizzata, stratificata, mobilissima contemporaneità ed il martello del desiderio di chiarezza? Che ce ne facciamo, soprattutto noi che siamo addestrati a riconoscere (o almeno a ricercare) la verità di una serie di strumenti analitici che sembrano fatti apposta per indurci in errore o per essere rivolti masochisticamente contro noi stessi, illuminando sempre e solo l'impossibilità di capire?

Autocritica. Il mio sport preferito.

La risposta che sponsorizziamo, passa come avevamo annunciato attraverso l'uso di alcune metafore curative. Per spiegare in che senso siano curative, dobbiamo riferirci a quanto detto all'inizio, e che per comodità ripetiamo.
Tutto quello che si scrive, si dice, si pensa, ha una componente ignota, rimossa. Di ogni fenomeno reale, oltre alla serie di concause e funzionamenti che conosciamo, dobbiamo poter considerare una serie di elementi e funzionamenti che non potremo conoscere, per ragioni di tempo, soldi, intelligenza, tecnologia eccetera. Il controllo totale della realtà, così come la "scoperta della verità", è un termine illusorio del nostro esercizio.
Ciò che dovremmo provare a fare, è ristrutturare il nostro modo di pensare in modo che ci sia permesso un certo tasso di razionalità e al tempo stesso un certo tasso di tolleranza verso il non (ancora) razionalizzabile.

Condizione invero assai precaria...


Esempi di metafore del genere sono le metafore polemologiche, nelle quali a fare la parte dell'ignoto è il nemico. Elusivi, intenti a nascondersi, l'errore, il dolore ed il fallimento attendono che abbassi la guardia, che perdi concentrazione.
Le metafore polemologiche sono migliori delle metafore di "esplorazione" (es: le nuove frontiere della ricerca) dal momento che permettono di rendere conto anche di quelle situazioni in cui il rimosso torna a prenderci "alle spalle", e soprattutto ci insegnano immediatamente che il rimosso, l'ignoto non è una passività, ma invece una tessitura di pericolose attività insospettabili.
Un altro esempio, è la metafora del viaggio, opposta alla metafora della costruzione: essa insegna che un passo prepara il prossimo, ma solo nella misura in cui si può lasciarselo alle spalle. Non vi è conservazione, nel procedere, se non nella forma di un effetto che prosegue il passato senza incorporarselo. Il presentarsi di ostacoli non previsti non è colpa del viaggiatore: tranelli, bestie feroci, meraviglie e incontri con strane tradizioni locali vanno messi in conto. Arrivati in fondo, non ci sarà altra ricompensa che un viaggio di ritorno, o una tomba in zone lontane. Nella metafora edilizia che molti di noi vivono, invece, tutto deve essere contabilizzato: la vita appare come un progetto, una faticosa serie di operazioni decise in anticipo, dal reperimento dei materiali al dare loro forma, fino al momento in cui la vita sarà finita, e si potrà finalmente abitarla.
La verità da cogliere quì non è banale: non progettare la tua vita, attraversala, dal momento che essa non ti sopravviverà. Come è scritto sulla pagina facebook del mio amico che si fa di ketamina: la vita è quello che succede mentre non te ne accorgi.

Role model: soldato e viaggiatore


Insomma: se non vuoi diventare matto, non cercare di scoprire la verità. Non cercare di costruire un mondo migliore. E soprattutto, non farti di ketamina.
Invece, gambe in spalla, e stai all'erta. Loro sono ovunque, e la meta è ancora lontana.
Coraggio.

23/11/14

Cul de sac

Oggi la porzione di cielo che si vede dalla mia finestra è bianco, lattiginoso. Non è una situazione rara, in questa bellissima città postindustriale di gente educata e gentile. Ma il sottoscritto, tutt'altro che autoctono e uomo d'altura, mal sopporta questo orizzonte sciropposo, monotono, malaticcio, malinconico e così via. Non sopporta la sciatteria delle forme cubiche dei palazzi che si susseguono strato su strato fino a sparire nella nebbia, i viali illuminati dai neon come gallerie nell'aria umida e opaca. Il senso di incompiuta, di immobilità


Va anche detto, tuttavia, che questo senso di incompiutezza, molle ottundimento, scoraggiante monotonia il povero Difaul non li apprende dalla nebbia, e nemmeno li può imputare all'architettura, o alla conformazione geografica dei posti. Come è tipico dei megalomani, dei narcisi e dei consumatori in genere, tutto quello che il giovane Difaul fa è riversare sull'apparenza del di fuori la verità del di dentro. Se questo è vero, bisognerà ammettere una volta per tutte che non c'è città che valga quanto questa, per far sorgere infine l'orrore del proprio degrado e decadimento, per generare una (qualunque) reazione. E che certi dispositivi estetici del romanticismo non hanno mai smesso di funzionare, anche se oggi ci tocca sempre e solo riproporli in forma derisoria.


Mi sentivo dunque assalito da quella forma blanda di depressione immotivabile che assale di tanto in tanto gli studenti, i disoccupati, gli imprenditori, le casalinghe e la gente in genere, soprattutto di recente. Quella forma di disperazione infantile, accompagnata dal senso di ingiustizia e dallo spettro inaccettabile di una colpa, mi spingeva a lunghe passeggiate nello scenario desolante. Incontrando occasionali ombre, figure umane nella nebbia, provavo lampi brucianti d'odio immotivato. Affondavo allora i pugni ben a fondo nelle tasche, e li stringevo fino a far entrare le unghie nei palmi (costellati ormai da mesi di piccole lune rosse).



Forse ad alcuni di voi, spero pochi, è familiare questa sensazione: nulla c'è da fare, eppure qualcosa di fondamentale manca. Forse - articola il cervello - ciò che doveva essere fatto non è stato fatto, ed ormai è troppo tardi. Forse qualcun altro doveva farlo. Forse si è semplicemente troppo stupidi per capire. L'esistenza umana individuale e le sue giustificazioni narrative sembrano un giocattolo rotto: la crepa è tanto profonda da replicarsi identica fra gli individui e fra i concetti.

Il post di oggi, dunque, è dedicato a questo: a quel momento in cui un'incoerenza minaccia non le strutture di un sistema, organizzazione coesa di sforzi umani, o di un linguaggio, pratica convergente di segni mobili, ma l'unità funzionale di una psiche.
Immediatamente prima di affrontare il punto mettiamo le mani avanti: Difaul non è psicologo, non è psicanalista né terapeuta. Questo ha due conseguenze. Uno: lavoro gratis. Due: non sono convinto che il fuoco del problema stia al livello dell'individuo.

"Dilettante"

Si tratta di un pensiero tutto sommato semplice, al quale tuttavia l'intelletto contemporaneo rimane abbastanza impermeabile. Se l'essere umano non è - come non è - isolato dagli altri, e può sopravvivere solo in forza di una molteplicità di relazioni nelle quali si inserisce "naturalmente", come si può pensare di curarne lo psichismo individuale? Lo psichismo individuale è il riflesso, l'orma di un ambiente sulla superficie dell'umano, un sistema di proiezioni, contestualizzazioni, simbolizzazioni e storicizzazioni che comprendono e decidono sempre di uno spazio relazionale del quale l'individuo non è che un margine, un polo.



Basta, questa considerazione a fare una teoria? E' ovvio che no. D'altra parte, come abbiamo detto anche prima, per fare teoria ci sono i libri. Qui vorrei solo dirvi ciò che nessuno mi ha detto, e che io avrei tanto voluto sentirmi dire, a un certo punto, prima di piazzare una serie patologica di investimenti libidici, di perdere tutto, di lasciarmi andare all'autocommiserazione, di immiserirmi e mollare. Vorrei dirvi che non è colpa vostra. Che esistono - esistono! - individui il cui narcisismo è l'unica alternativa all'autodistruzione, e l'individualismo metodologico è il modo in cui possono continuare a pensare di meritare ciò che hanno ereditato dai modi convettivi di un mondo ad irrazionalità crescente. E che la tua depressione, il tuo senso di sconfitta, deriva dall'assunzione speculare di responsabilità per la vita di merda che fai.



Dovresti invidiare il servo della gleba (e già lo si fa, nella forma ironica di chi aggira il proprio super-io capitalista). Perché egli era soggetto di sfruttamento brutale per volere di dio. Non meritava nulla, e nulla avrebbe mai dovuto meritare. Dovunque facesse passare la costruzione di una personalità (devozioni in odore di paganesimo o di eresia, culti privati, affetti familiari allargati...) nessuno se ne sarebbe occupato. Lui era un'uomo oppresso. Tu un burattino: il tuo processo di soggettivazione è interamente controllato. Il fatto che tu non esista indipendentemente dall'apparato che ti sfrutta è segnato dal senso di colpa che ti prende quando esisti senza lavorare.



Il capitale non è una somma, né una collezione di roba. Il capitale è una serie di rapporti sociali ed economici, il cui peso psichico è stato troppo a lungo trascurato: esso determina la follia del proletario e del disoccupato, e la follia uguale e contraria (ma ospitalizzata, quantomeno) del ricco e del padrone. Ad ognuno degli spostamenti, degli aggiustamenti, dei miglioramenti, delle innovazioni del nostro bel mondo contemporaneo, tecnocratico ed occidentale corrisponde un aumento del rimosso. Ormai l'isteria striscia dietro ogni angolo, ed inscrive i suoi toni ovunque. L'euforia isterica di chi ha successo eguagliata solo dall'odio isterico di chi non ce l'ha, e a questa diade va ricondotta ogni dialettica umana.



Così la vita stessa - la vita dell'individuo come la vita politica della società e dei gruppi che la percorrono - si rinsecchisce, indurisce. L'adattamento non è un obbligo, ma una qualità. L'obbedienza non è un obiettivo del potere, ma un prerequisito dell'esistenza. I miei coetanei, lungi dal diventare il germe di una nuova cultura, di un nuovo giornalismo, di un nuovo mondo (come vorrebbe il lamento senescente e paternalista della stampa generalista) stanno imparando a trasformarsi: si trasformano nel più stolido e retrogrado degli eserciti della reazione. Così va il mondo: si spiano l'un l'altro, si denunciano al potere costituito, sperano in un passo falso. La disperazione li spinge al salto di fede: si mettono interamente in mano a maestri, genitori, padroni. Non osano nulla, non osano mai. (Osare cosa, poi? E perché?)



Quello che voglio dirvi, prima che sia troppo tardi per dirvelo, che lo scopriate da soli, è semplice. Non è colpa vostra se siete infelici. Il mondo così com'è produce infelicità. Si nutre di desiderio frustrato, di ansie, di insicurezze. E' normale essere infelici, indipendentemente da dove, come o con chi.
Per contro: non è impossibile essere felici. Anzi, essere felici è molto facile. Basta essere felici. In generale, non fidarti di chi prospetta il raggiungimento della felicità alla fine di un lungo lavoro di auto-costruzione, auto-formazione, auto-controllo eccetera. La felicità non ha a che fare con il controllo. Non serve essere intelligenti, forti e belli per essere felici.
La tua intelligenza, la tua forza, la tua bellezza non sono qualità. Non ti definiscono. Non li avrai da morto, e probabilmente nemmeno da vecchio. Non curartene come fossero meriti o decorazioni: usali. Possibilmente, usali per il bene.



11/11/14

Teoria pratica

Esistono infiniti modi di sapere qualcosa. Se si volesse compiere una ricognizione delle serie ordinate di riflessi e stati interni implicate dal conoscere, dal ricordarsi, dall'immaginare essa risulterebbe probabilmente in un catalogo infinitamente infinito.



E' dunque perfettamente comprensibile che di tanto in tanto l'essere umano si stanchi di stendere cataloghi, e si soffermi a pensare che in fondo il suo "dentro", inteso come misura comprendente la coscienza e l'inconscio, eccede per la quantità e la qualità dei contenuti attualmente o virtualmente possibili la ricchezza stessa del modello, che potrebbe essere dunque lo spirito a creare la realtà, e che il vincolo tenue fra la vita interiore e la "realtà esterna" non è che un pretesto, una narrativa consolatoria.



Il senso nel quale oggi si intende, innanzitutto e perlopiù, l'esercizio di formazione di una coscienza non segue tuttavia questa linea introflessa di indagine della memoria e del se, esercizio di concentrazione e decentramento che abitua al vuoto dei riferimenti e all'oscillazione fra istanze virtuali e scenari possibili.
Piuttosto, lo sforzo del farsi riguarda una attività che, se procede dalla coscienza, deve però farsi valere nella realtà. Il potere della coscienza non è un fantasma psicologico che procede dall'esplorazione dell'interiorità, ma il parametro perché si possa dire che essa esiste. Benché la società contemporanea possa senz'altro affermare di macinare più immagini e più ricordi, più dati e più realtà di ogni altra società nella storia, essa non si fida più di ciò che manipola, né della propria capacità di ricostruire l'ordine narrativo. Tali materiali hanno perso la capacità di ordinarsi da se secondo un senso complessivo mentre noi perdevamo l'abilità di sopportarne la confusione. La loro ricchezza non serve a sorprendere la coscienza: l'uomo contemporaneo non ha mai provato lo stupore di un parigino all'esposizione universale. La tecnica, che inscrive la sua fisionomia nel contesto e scompare, passando sotto la traccia dell'osservazione degli eventi, dando vita a storie sepolte e collaterali dell'attività umana, è sopravvissuta all'esaltazione positivista, alle simbolizzazioni di guerra e terrore, all'attribuzione di valore politico. Essa ha gradualmente seppellito i linguaggi dei quali all'inizio si era nutrita, e quelli che le stavano appesi in forma parassitaria, ed aspira a tradursi da se.



Qual'è la forma contemporanea di un tale sforzo? Quali ne sono le strategie? Quali le empasse? Una teoria del senso nell'età contemporanea assomiglia allo sforzo futile dell'agrimensore su un campo di battaglia: come a proposito del nesso mobile e pericolante (nonché pericoloso) fra cultura e creatività, siamo di fronte ai poli di una tensione che non si risolve in equilibrio, ed è destinata a divorare sia chi la ignora scientemente, sia chi si illude di conoscerla e costruisce il campo dei suoi esercizi teoretici su una crepa. Tuttavia, ciò non costituisce un problema esplicito per chi si assume il compito non di comprendere la realtà complessa, ma di gestirne la complessità.



Come può la tecnica tradursi da se? E in che cosa dovrebbe poi tradursi? E possiamo ancora chiamare l'operazione che vogliamo designare una traduzione? Tali questioni nascondono l'insicurezza di chi voglia applicare un sapere ermeneutico all'uso che si fa oggi dei codici. "La comprensione non ci interessa", è l'affermazione sottintesa ad ogni analisi contemporanea: abbiamo padroneggiato la formazione del senso nella mente, sappiamo cos'è un frame ed una prospettiva, sappiamo presentare una realtà (vale a dire costituirla, non fornirne una rappresentazione che rimanda ad un originale esterno capace sempre di tornare a metterla in discussione). Dunque il problema della comprensione semplicemente non si pone, o si pone al contrario: voglio sapere che cosa riesco a farti capire, nel senso specifico che comprende le possibilità e le restrizioni operative che l'esposizione ad una serie significante produce, sia le modalità per rendere tale spettro controllabile ed univoco. Il maestro zen (e alcune specie di filosofi) potevano accontentarsi di indicare la porta, lasciando all'allievo la decisione e l'atto di attraversare la soglia. L'intellettuale contemporaneo deve esercitare un potere ben maggiore: portare l'audience fino a dentro il supermercato e mettergli in mano il fustino di ammorbidente. Suscitare la reazione desiderata. In questo senso la traduzione della tecnica in realtà assume la forma dell'iscrizione di desideri e tabù sulla carne, e impone allo stesso tempo la padronanza e la distanza "professionale" dai materiali che si maneggiano.



Eppure, al di sotto della sicumera delle tecniche della comunicazione (che sarebbe meglio chiamare tecniche del significato) si muove una inquietudine che raddoppia e moltiplica quella del filosofo (o ermeneuta) spiazzato. La potenza ed il controllo non ammontano ad una rappresentazione. A scapito della tecnica e del suo andamento procedurale, una serie di eventualità vanno tenute in conto: i mutamenti e gli eventi, le intensità mobili del reale si riprendono talvolta la loro infantile rivincita frustrando i tentativi di controllo. A questi insuccessi, la moderna tecnica del linguaggio non può opporre la consapevolezza della complessità, dal momento che è stata portata a negarla retoricamente proprio nell'atto fondativo in cui ha iniziato il suo discorso. Là, diremmo noi, si aprono crepe.



Proprio la nostra metafora-cardine ci descrive quindi "come va a finire" ogni contraddizione che apra buchi nella cultura - e forse si potrebbe addirittura parlare di semiosfera, non fosse che azioni ed eventi vengono a farne parte. Inizialmente, la tensione di uno sforzo sostenuto da un potere (una istituzione o disciplina che giustifica la trasformazione del reale) apre discontinuità ed incoerenze rispetto a quelle silenziose continuità di pratiche e significazioni che sostenevano l'intelligibilità reciproca e collettiva dei comportamenti umani. In un secondo momento, tali segni e pratiche vengono inghiottite dal vuoto che si è così aperto. In tal modo si perde di solidità e solidarietà (psichica, sociale, politica), ma si apre una "direzione ulteriore": mancando al suo posto, il linguaggio tecnicizzato (appropriato da una ratio eterogenea) apre di fatto la possibilità e lo spazio di una riorganizzazione profonda. Ciò che si deposita sul fondo fermenta, piuttosto che crescere, e a volte imputridisce. Un terzo stadio, ancora da verificarsi, è quello nel quale l'accumulazione di una realtà che non è mai stata concretamente negata, ma solo rimossa dalle trasformazioni del regime di discorso, escluso dalla struttura secondo la quale esso si ripartisce, riemerge alla superficie sviluppando una energia tellurica tale da scompaginare una volta per tutte le disposizioni di senso invalse.



La questione è dunque duplice: da un lato il linguaggio che è organo umano - e in quanto tale rivendica uno statuto che si oppone nettamente a quello dello "strumento", secondo una retorica che è onnipresente sia in ambito mediatico che accademico. Dall'altro il linguaggio che rimanda organicamente ad altro, una volta trasformato in oggetto proprio di una tecnica, è idealmente amputato dalle connessioni necessarie che intrattiene con il "resto" dell'umano (a sua volta, ogni ambito di tale resto è oggetto di una tecnica specifica). Il termine "idealmente" ha tuttavia una rilevanza decisiva: in concreto, la sintomatologia del presente si arricchisce di giorno in giorno di disagi che non sono solo effetto di parametri economici concreti, ma anche di gravi scompensi della capacità di soggettivazione individuale e collettiva.

22/10/14

Conseguenze del cinismo

Comincio a pensare che quella di "crepe" sia una categoria pericolosa, destinata a sbriciolarmisi fra le mani. Il che non sarebbe male, anzi, servirebbe a mostrare una volta di più l'azione decisiva delle metafore inscritte nei concetti, la varietà di operazioni inconsce che tali metafore inducono nel pensiero, nonché l'importanza del momento mimetico, esplicito nel creparsi della nozione di crepa.


Per voi e me sarebbe tutto sommato triste. Per me significherebbe l'afasia (e in parte è già successo). Per voi la fatica di scegliersi un altro blog da leggere, oppure la condanna alla vita vera.
Proviamo dunque a rimettere in ordine i nostri pezzi. Siccome la via analitica ci è preclusa (è tutt'altra questione individuare "oggetti" del pensiero e "fratture del pensiero", specificatamente perché i primi si lasciano prendere e le seconde prendono noi) procediamo alla spicciolata, strategicamente ingenui, secondo il paradigma del "finto tonto", e perciò in maniera provocatoria.
Ora dunque dimentichiamo tutto, e facciamo finta che io stia parlando di me.



L'altro giorno ero davanti ad un noto e non tanto nuovo palazzo torinese, e temporeggiavo di fronte agli impegni di una esistenza forsennatamente vuota. Temporeggiare, come è noto, è una attività collettiva, e la conversazione in quel momento verteva sui cosiddetti "tempi moderni", quando ad un certo punto uno di noi se ne esce con la domanda del millennio:

"Ma tu ci credi ancora alla rivoluzione?"

Fortunatamente, la domanda non è rivolta a me. Mi fa ad ogni modo sbiancare e sudare freddo. (non si può stare mai tranquilli, mai.) In un secondo tempo, come di solito, mi siedo in un angolo polveroso di un androne e ci penso su. Un mare in tempesta di contraddizioni mi corre incontro ghignando. Come ogni individuo beneducato dalla generazione di Amleto in poi, fortunatamente, so che vi sono due condotte possibili in tale situazione: costringere le contraddizioni a mettersi in fila, ed affrontarle l'una dopo l'altra fino ad esaurimento delle contraddizioni o della forza residua, oppure affrontare una torsione decisa dello spazio problematico concepito nella sua totalità (e con il vostro povero Difaul preso in mezzo ad esso). Nel primo caso, si rischia di non finire mai, nel secondo caso si rischia e basta. Vi è già, in questa scelta, la matrice della differenza fra un agire giuridico-processuale ed un agire rivoluzionario.



Dovrei dirvi a questo punto quale scelta ho compiuto, e cosa ne ho ricavato. Eppure credo possa essere di maggior interesse un punto di vista fittizio, più generale e diffuso del mio. Bisognerebbe occuparsi non di ciò che mi fa rispondere, ma di ciò che ci fa ancora domandare. Non il mio "credo", che in fondo si risolve in se ed è buono a nulla, deve essere interrogato, ma la necessità di un fantasma rivoluzionario che ossessivamente ricompare, e nel moltiplicarsi della porosità dello spazio semiotico che occupiamo si intravede lacero e confuso e tuttavia sorridente fare capolino da ogni dove, per poi ritrarsi.
Per rendere evidente ciò che voglio dire, vale la pena considerare il ruolo che in tale fenomeno gioca la confusione fra la linea di fatto (credo sia possibile una rivoluzione) e la linea di principio (credo sia necessaria una rivoluzione).

Dunque, senza credere e senza sperare alcunché, diamoci qualche minuto per riflettere su un particolare tipo di doppio vincolo, una crepa speciale e deliziosa nella quale molti di noi affondano fino alle ginocchia: nello specifico quello che succede quando si crede che una rivoluzione sia necessaria, e tuttavia non possibile.


Per fare un passo avanti, dunque, dobbiamo farne due indietro (in due direzioni diverse, per di più). In primo luogo, ripassare l'economia psichica della rivoluzione. Per limitarci all'Abbiccì, diciamo soltanto che la rivoluzione è un evento mitico: essa spalanca di fronte a se una virtualità che si annuncia come tale nel segno del rovesciamento, e che coincide con una temporalità concreta da farsi.
Vale a dire: la rivoluzione è il termine di un'epoca e l'inaugurarsi di un'epoca nuova. La si presenta in genere come passaggio dall'inautentico all'autentico, in termini variabili ed oscillanti (dalla condizione umana alla natura dei rapporti fra individui, allo statuto dei rapporti di produzione).

Perché la rivoluzione abbia successo, deve verificarsi un certo grado di maturazione di forze che, interne ad un sistema iniquo, premono per un rovesciamento di questo. Ogni vero rivoluzionario non va in cerca di crepe, ma di assi intorno ai quali la realtà stessa potrebbe (dovrebbe) capovolgersi. Più il sistema di assi individuato è semplice, più il ruolo del catalizzatore è netto, più la rivoluzione è giusta, pulita ed ha successo.
Ricordate la scena di V per vendetta in cui V (un prototipo di rivoluzionario del quale poi si parlerà) fa cadere una tessera di un immenso domino? Ecco: nello stesso esatto modo si svolge poi la sua rivoluzione. Con un tocco delicato (o una serie di assassinii) si compie il primo movimento di una reazione a catena, una valanga capace di travolgere tutto.



In tali casi, uno stato metastabile (ma ordinato) collassa attraverso una fase di meraviglioso caos catartico verso un altro stato ordinato, questa volta stabile (perché fondato sulla rivelata autenticità dell'essere umano).

Al contrario, più il processo è "sporco", più la società - per quanto falsa e iniqua - è stabile e inamovibile, più è difficile pensarla come un insieme contraddittorio, instabile, destinato (secondo una sorta di legge che per quanto materializzata rimane spirituale) a collassare per divenire il regno della verità (o per realizzare il vostro ideale emancipativo, qualunque esso sia).
Per rendere conto del presente, tuttavia, dobbiamo ricordare che vi è un caso addirittura più pernicioso di quello di un solidissimo status quo gerarchico e conformista, per il rivoluzionario. Si tratta del caso in cui fra la città del demonio e la città di Dio (o fra la città del capitale e quella dell'essere umano) si instauri un sistema di coesistenze e dipendenze e mutue compensazioni che rendono impossibile il rovesciamento. Rimane allora spazio tutt'al più una serie di movimenti collosi, insoddisfacenti e frustranti. Ci si perde nella continua difesa del proprio equilibrio mentale, una serie di gesti di piccolo cabotaggio vanificati ben presto dai moti convettivi e conservativi di quella realtà che non è una grande menzogna da venire sbugiardata, e nemmeno una grande verità nella quale gioire, ma una massa di simboli privi di senso, se non un senso parziale, limitato, individuale.


Se la realtà non è stabile, solida e rovesciabile, ma fa dell'instabilità la propria cifra e la propria aspirazione, ognuno dei movimenti che vi si rendono possibili non può mirare al rovesciamento, e viene presto riassorbito. La rivoluzione ne risulta altrettanto frustrata: essa dipende da un tipo speciale di movimento che si definisce per alterità rispetto al falso equilibrio precedente, e per la sua capacità di produrre un reale equilibrio a venire. Come adeguarla al moto convettivo inarrestabile della contemporaneità? Di qui lo sconforto.


Possiamo dire che la grande retorica della fluidità sociale, politica, emozionale eccetera elimini la necessità di una rivoluzione? No. Dice solo che forse essa non ci sarà mai. Come davanti alla morte di Dio (che non si riduce all' assenza di Dio), ci troviamo di fronte ad una scollatura di esigenze fondamentali. Kant aveva indicato come la coincidenza all'infinito (e dunque metafisicamente proiettata) degli interrogativi "cosa devo fare" e "cosa mi è lecito sperare" fosse essenziale alla serenità di spirito. Nel momento in cui il nostro tempo non ci appartiene (né nella forma di una virtualità da progettare, né nella forma di una eventualità dalla quale attendere risposte), non ci possiamo permettere un "devo" che non sia riferito alle più ristrette realtà abitabili (devo pur mangiare). Non ci possiamo più permettere l'essere umani, che a costo di fragilità estreme e profondissimi complessi.


Aprire crepe è forse futile: dopo il crollo non resterà un dentro né un fuori né una tabula rasa. Solo una nuova e migliore possibilità speculativa.
Eppure abbiamo già detto: il doppio vincolo è quando non si può accettare, né rinunciare, né fallire. L'uscita dal doppio vincolo non esiste, e se esiste è dolorosa.